Riina sorprese tutti: non dovete fare nulla, dice, perché ci sono in ballo cose più grosse. E Sinacori tornò subito a Roma che pareva che manco era partito o che l’aveva fatta a piedi correndo come un turco, tanto era trafelato e pallido, quando bussò alla porta del nostro appartamento per dire: picciotti, dobbiamo andare via, lo zio Totuccio mi ha detto che è tutto sospeso...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.
Le armi – come accennato – erano poi arrivate a Roma a bordo di un furgone frigo che era stato modificato per nasconderle. Arrivò dalla Sicilia Giovan Battista Consiglio con il figlio, che gli aveva fatto compagnia durante il viaggio dato che lui ormai aveva una certa età, e non immaginava tutta la santabarbara che stava nascosta nel camion.
Lo abbiamo aspettato al raccordo anulare, poi da lì siamo andati presso un capannone abbandonato, abbiamo sceso armi ed esplosivo e abbiamo caricato tutto nella macchina di Scarano, che lui si sarebbe portato tutto a casa e nascondeva la roba nello scantinato, tra le damigiane con l’olio buono, gli attrezzi e le cianfrusaglie di sua madre.
Poi abbiamo noleggiato un’auto, una Y10 bianca, targata Roma, con la carta di credito di Geraci che era l’unico ad avere la fedina penale bianca come quell’auto. E diciamo anche che quella carta di credito l’abbiamo prosciugata, in quei giorni. Noi lo prendevamo in giro: Minchia, Gerà, se eri in viaggio di nozze o te ne andavi a buttane ’sto viaggio ti costava meno! Ma Geraci non diceva nulla, anche perché già prima del viaggio aveva dovuto dare su ordine di Matteo 20 milioni di lire a Scarano per il disturbo.
Noi intanto spendevamo: in Via Condotti abbiamo comprato camicie e cravatte, perché ci piaceva fare i pedinamenti eleganti, se no ci avrebbero sgamati subito; Matteo si comprò anche un cappotto colore cammello come in quella canzone «che al Maxiprocesso eravate ’u chiù bello», uè.
Da lì cominciammo a cercare: Falcone, Martelli, Costanzo. Un po’ in Via Arenula, dove c’è il ministero della Giustizia, un po’ nelle zone di Parioli. Siamo stati in giro per una decina di giorni. E, dobbiamo dire, senza grande successo. Ogni mattina si partiva con l’auto, a turno, si andava in Via Arenula, e ogni sera si giravano le zone di Trastevere per capire dove andasse a mangiare il dottore Falcone, se era al Matriciano, o alla Carbonara, o da Sora Lella, o nel locale preferito di Matteo, il ristorante Dei Gracchi.
Eravamo convinti che li avremmo incontrati. Geraci e Sinacori erano quelli che seguivano Costanzo, con l’auto, tra le strade di Roma. Un giorno li ha fermati la polizia. Patente e libretto, prego, come mai a Roma? Faccio il gioielliere, dice Geraci, sono a Roma per incontrare un grossista e per caso ho incontrato questo compaesano mio, ci stavamo facendo un giro. Potete andare, buona permanenza. Grazie.
Per due o tre sere siamo stati a Parioli, abbiamo anche seguito i movimenti di Costanzo, ci mettevamo all’uscita del teatro dove registrava il suo programma, a un certo punto sembravamo quasi fan che aspettavano l’autografo. Nel teatro non siamo entrati. La verità? Ci annoiava. Cioè, a noi il Costanzo Show come programma neanche piaceva, pensate vederlo dal vivo! Una sera ci siamo andati a teatro, ma mica lì, al Bagaglino, che quello ci divertiva anche in televisione, con Pippo Franco e l’attore che faceva sempre la femmina, e un sacco di pilu.
Al Bagaglino, tra l’altro, siccome invitavano spesso i politici, magari avevamo una botta di culo e capitavamo in una puntata in cui invitavano Martelli o qualcun altro che interessava a noi. Comunque, tornando a Costanzo, era quello più facile da fare. Non era scortato, faceva sempre gli stessi movimenti, ci potevamo sparare, ci potevamo mettere l’autobomba, o meglio, piazzare l’esplosivo in un cassonetto che era vicino il teatro, in un vicolo dal quale l’auto ogni sera doveva svoltare. Insomma, potevamo anche chiamare i napoletani.
Qui dobbiamo aprire una parentesi, per una cosa che avevamo notato, e che pensavamo sarebbe stata oggetto di discussione, e invece è finita e morta lì. Noi avevamo le armi, ok, per uccidere il dottore Falcone e tutti gli altri, e all’occorrenza l’esplosivo. Che erano due sacchi belli grossi, tipo cento chili. Solo che non avevamo detonatori, telecomandi, micce, non avevamo nulla, solo la polvere.
Questa cosa ogni tanto tornava nei nostri discorsi, perché qualcuno capitava che lo dicesse: sì, dobbiamo fare l’attentato, ma come? E Matteo diceva di non preoccuparci. E come sempre nessuno osava più continuare. Chi ci avrebbe aiutato? Non lo sapevamo, non lo abbiamo mai saputo… Perché questa è la domanda che vi inquieta più di tutte: ma davvero avete fatto tutto da soli? E la risposta è semplice: noi abbiamo fatto quello che andava fatto. E soli non siamo stati, mai.
La sera poi ci si vedeva in qualche ristorante affollato, e ognuno riferiva a Matteo quello che aveva visto: nessuno ci notava. Geraci faceva sempre teatrino, perché ogni volta, quando c’era da pagare il conto, doveva tirare fuori la sua carta di credito. Ma Matteo glielo diceva: poi ti restituisco tutto.
E a noi picciotti invece ci avrebbero dato cinque milioni di lire a testa. Eravamo eleganti, eravamo bellissimi. Stavamo bene nella capitale d’Italia, eravamo felici. E avremmo voluto anche mandare un telegramma alla mamma per dire di questa città, Roma, grande piena luci gioielli stop.
E il piano cambia all’improvviso
Passeggiando per Roma, a un certo punto, ci venne anche una fantasia. Di conquistarla. Di farla nostra. Avevamo grande stupore nello scorgere il Colosseo, i Fori, le chiese monumentali, il cupolone di San Pietro, tutto arrivato ai giorni nostri, questa Italia di rovine di ogni età e di generi che sembrava offrirsi al nostro desiderio come una buttana, anzi, no… questa città di cadaveri, ecco.
Mai avevamo provato una sensazione così pura e completa. E capitava che ci sorprendevamo fermi, immobili, a contemplare le rovine, immaginando come un giorno, noi, proprio noi, con Matteo, avremmo potuto fare rinascere vita intorno a questi resti superbi e paralitici. Ridando loro magnificenza. Altri anfiteatri, altre chiese, altri palazzi. Altra potenza.
Vi sembrerà strano, ma era un pensiero che ci riempiva di gioia: eravamo di fronte all’infanzia del mondo. E poi Matteo disse: se ci dobbiamo mettere la bomba, ci vuole il permesso di Riina.
E mandò Sinacori a Palermo, per chiedere la specifica autorizzazione. Riina sorprese tutti: non dovete fare nulla, dice, perché ci sono in ballo cose più grosse. E Sinacori tornò subito a Roma che pareva che manco era partito o che l’aveva fatta a piedi correndo come un turco, tanto era trafelato e pallido, quando bussò alla porta del nostro appartamento per dire: picciotti, dobbiamo andare via, lo zio Totuccio mi ha detto che è tutto sospeso. «Dicci a Matteo di tornare indietro», sono state le sue parole. «Dicci ai picciotti di scinnere, me la sbrigo io qua».
Tutto sospeso, ci dice Matteo. Ok. Torniamo giù, in Sicilia, ognuno per i fatti suoi. Scendiamo lenti come i corvi. Qualcuno malignò che Riina era pure insoddisfatto. Troppi costi, troppi rischi, e poi per fare cosa? Per far fare il viaggio di maturità extralusso a un gruppo di picciotti siciliani? Ma Matteo non era preoccupato, perché aveva il piano B, affidato a Giovanni Brusca, ed era quello dell’attentato da fare in Sicilia. Solo che per Brusca magari eravamo noi il piano B, sempre per quella cosa che ognuno sapeva solo lo stretto necessario.
Non fu però un fallimento la missione romana. A parte che abbiamo visto Roma, che non è mai male, perché noi ci teniamo anche a vedere le città importanti e a farci una cultura, che vi pare?, e poi aveva avuto anche dei risvolti pratici. Perché finalmente avevamo visto il dottore Falcone da vicino, che è un po’ come se vedi da vicino una celebrità della quale sei ossessionato, hai magari i poster in camera.
Avevamo misurato i suoi passi, lo avevamo visto come stava composto a tavola, e qualcuno di noi sosteneva di aver potuto anche interpretare il labiale delle sue ordinazioni, ma erano suggestioni. E tutto quell’esplosivo che ci eravamo portati dietro alla fine ci servì, come ci servì conoscere Roma e i suoi quartieri, sotto la guida di Scarano, perché poi l’anno dopo, quando davvero avremmo voluto fare fuori a Roma il presentatore Maurizio Costanzo, quell’esplosivo ci tornò molto utile.
Ci rivedemmo a Palermo, di nuovo nella calda nudità di luce della Sicilia, per aggiornarci. Parlammo poco, ma fu un silenzio vorace. Ognuno sapeva un pezzetto di quello che sarebbe accaduto, lo stretto necessario. Solo Matteo sapeva tutto. E infatti qualche settimana dopo acchiappò a Geraci e gli fece: «È meglio che per un po’ a Palermo non ci vai». «In che senso, Mattè?». «Nel senso che non devi andare a Palermo».
Ma Geraci lavorava, aveva la gioielleria, andava e veniva da Palermo con i suoi fratelli tutti i giorni perché aveva fornitori in zona, e altre faccende. Stava per arrivare maggio, mese di sposalizi e di regali di matrimonio. E allora Matteo gli disse: «Vabbè, fai così, allora, a Palermo ci puoi andare, se proprio devi. Ma non prendere l’autostrada. Esci ad Alcamo, e ti fai tutta la statale, la strada vecchia».
Dopo la strage di Capaci, Matteo poi disse a Geraci: «Adesso puoi andare a Palermo». E gli fece come una specie di sorriso.
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