- La pandemia ha mostrato, se ce ne fosse stato ancora bisogno, che la protezione sociale è distribuita in maniera disuguale. Per la prima volta è stata introdotta una forma di tutela per il lavoro autonomo.
- L’Iscro, tuttavia, è destinata a un gruppo molto limitato di autonomi, i professionisti che non appartengono ad ordini professionali, ed è concepita solo per proteggere da un calo del reddito.
- Contemporaneamente c’è una intollerabile iniquità sul piano fiscale: gli autonomi che hanno ricavi fino ai 65mila euro pagano solo il 15 per cento, il 5 nei primi anni, mentre sui dipendenti con un reddito superiore a 28 mila euro grava una aliquota del 38 per cento.
Se ve ne fosse stato bisogno la pandemia ha chiarito che la protezione sociale è un bene che si distribuisce in modo molto diseguale tra i lavoratori. In particolare, ragionando sui grandi aggregati, tra i dipendenti e gli autonomi. I primi – sebbene in modo, di nuovo, diseguale – sono tutelati da Cassa integrazione e sussidi di disoccupazione. I secondi non possono contare, di fronte ai rischi e alle difficoltà, su nulla di simile; la conferma viene dall’affanno con cui, nella pandemia, si è cercato di porre rimedio a questa deficienza più volte ridefinendo bonus e ristori.
Nell’ultima legge di Bilancio è stata introdotta – in via sperimentale – l’Iscro (Indennità straordinaria di continuità reddituale e operativa). Prima non era prevista alcuna forma di indennità per il lavoro autonomo. L’Iscro, tuttavia, è destinata a un gruppo molto limitato di autonomi, i professionisti che non appartengono ad ordini professionali, ed è concepita come misura – peraltro assai poco generosa - a favore di chi subisce un cospicuo calo del reddito; essa lascia, quindi, senza protezione quanti sperimentano un’avversità simile al licenziamento e cioè la chiusura dell’attività.
Il problema delle tutele dei lavoratori autonomi non può, dunque, dirsi risolto con l’Iscro, che comunque rappresenta un piccolo passo in avanti, e ciò non può non preoccupare in un paese in cui per varie ragioni (convenienze fiscali, tipo di struttura produttiva in molti settori dei servizi, scelte contrattuali dei datori per risparmiare sul costo del lavoro) il lavoro autonomo è diffuso ben più che altrove. Secondo i dati Eurostat nel 2018, in Italia il 22,3 per cento della forza lavoro aveva un contratto da autonomo e, fra questi, gli imprenditori erano solo il 26,6 per cento. Il corrispondente dato nell’Unione europea a 15, quella prima dell’allargamento a Est, è del 14,6 per cento e valori più bassi si registrano in Francia (12,0 per cento), Germania (9,8 per cento) e Svezia (9,4 per cento). In Italia gli autonomi sono spesso lavoratori fragili e, come l’aneddotica e molti studi suggeriscono, sono autonomi non per libera scelta ma per mancanza di alternative.
Le protezioni da trovare
È, dunque, urgente ragionare sulle protezioni di reddito da offrire al lavoro autonomo. I problemi da affrontare per individuare le migliori modalità di intervento sono, tuttavia, molteplici e le cause stanno sia nell’enorme eterogeneità interna al mondo autonomo sia nella difficoltà a definire e individuare il rischio contro il quale prevedere la tutela: chiusura dell’attività o calo di reddito? Inoltre, è rilevante il rischio di comportamenti opportunistici; ad esempio, se venisse fissata una soglia di reddito per godere di benefici fiscali si potrebbero manipolare i dati per non oltrepassare quella soglia. L’assenza di un evento facile da accertare come il licenziamento complica ulteriormente i problemi di disegno efficace delle misure di tutela. Le difficoltà sono, quindi, molte e non lievi ma non si può per questo rinunciare al progetto di costruire un sistema veramente universale di ammortizzatori sociali.
Lotta alle false partite Iva
Sicuramente, un buon punto di partenza sarebbe la definizione di una serie di misure, a costo zero per il bilancio pubblico, che contrastino forme contrattuali atipiche, e/o ben poco remunerate all’interno del lavoro autonomo (è il caso di chi è costretto ad accettare “falsi lavori a partita Iva”, come molti degli addetti alle piattaforme online), misure che per queste loro caratteristiche possiamo considerare di tipo pre-distributivo. Ma, inevitabilmente, si dovrà cercare di offrire forme di tutela strutturale anche alle numerose altre categorie del mondo autonomo.
Tutto questo lo impongono essenziali ragioni di equità le quali, peraltro, richiedono anche che i potenziali beneficiari di queste assicurazioni contro i rischi di riduzione o di perdita del reddito da lavoro partecipino, con adeguate contribuzioni, al finanziamento del sistema. Sebbene in modo timido questo principio sembra essere riconosciuto in relazione all’introduzione dell’Iscro. Vi è però un altro aspetto molto rilevante per procedere nella direzione di una maggiore equità complessiva tra lavoro dipendente e autonomo. Si tratta del diverso trattamento fiscale di queste due categorie, che assicura un notevole e non si sa quanto meritorio vantaggio ai lavoratori autonomi.
Il divario sul fisco
Prescindiamo – ma non andrebbe fatto - sia dalle maggiori opportunità per gli autonomi di evasione e elusione fiscale che generano, per furbi e disonesti, risparmi indebiti che dovrebbero essere utilizzati per far fronte alle situazioni di difficoltà senza chiedere supporto alla collettività, sia dal fatto che i libero-professionisti “ordinisti” non fanno parte del sistema previdenziale pubblico gestito dall’Inps e versano i contributi obbligatori alle casse autonome gestite dal loro ordine professionale. Il problema a cui ci riferiamo è l’imposizione differenziata fra autonomi e dipendenti introdotta nel 2019. Il cosiddetto regime forfettario, o di flat tax, consente infatti agli autonomi con ricavi annui fino a 65mila euro di optare per un sistema ad aliquota unica del 15 per cento (addirittura il 5 per cento nei primi anni di attività), con possibili vantaggi anche nella definizione del reddito imponibile. Ciò genera chiari effetti distorsivi sul fatturato dichiarato (per poter godere del regime agevolato) e, soprattutto, un’intollerabile iniquità fra categorie di lavoratori con reddito simile: i dipendenti con un reddito superiore a 28 mila euro annui sono infatti gravati da un’aliquota del 38 per cento. Tale iniquità – peraltro foriera di regressività – risulta confermata da quanto ha affermato l’Istat in una recente audizione in parlamento: per redditi di importo medio la differenza di aliquota tra dipendenti e autonomi raggiunge in media i sette punti percentuali.
Non vi è dubbio che elementari ragioni di equità richiedano di eliminare o almeno ridurre le disuguaglianze nelle tutele previste per lavoratori dipendenti e autonomi. Ma quelle stesse elementari ragioni richiedono di eliminare gli ampi privilegi fiscali di cui godono gli autonomi. L’augurio è che il governo Draghi lo tenga presente nel mettere mano alla riforma dell’Irpef, che sarà uno dei suoi più urgenti impegni.
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