L’Antitrust Ue dà il via libera finale alla cessione di Ita alla tedesca Lufthansa: passa l’accordo con easyJet per evitare il rischio monopolio. La vendita chiude la lunga storia di Alitalia, fatta di scelte sbagliate che insegnano qualcosa. I tentati salvataggi di Prodi, l’ossessione della destra per l’italianità e lo sguardo corto dei sindacati
L’ok all’acquisto alla fine c’è stato, Ita Airways è della tedesca Lufthansa. I tecnici dell’Antitrust Ue hanno dato parere positivo sui rimedi a tutela della concorrenza sui tre fronti ritenuti critici: l’alta concentrazione a Milano Linate e il rischio monopolio su alcuni voli tra l’Italia e l’Europa centrale e su tre rotte intercontinentali tra Roma e il Nord America. Il via libera definitivo alla vendita del 41 per cento di Ita arriva dopo un anno di negoziati.
Secondo la commissaria Margrethe Vestager, la fusione tra le due aziende del trasporto aereo avrebbe rischiato di creare una situazione di monopolio su alcune tratte, violando le regole europee sulla concorrenza. Per questo motivo l’11 novembre Lufthansa e Ita, la compagnia di bandiera italiana che tre anni fa ha sostituito Alitalia e finora controllata dal ministero dell’Economia, hanno dovuto dimostrare di aver affidato quelle rotte ad altri vettori.
Per quanto riguarda Linate e i voli intraeuropei, è stato firmato un accordo con easyJet. La compagnia britannica otterrà 30 slot giornalieri nell’hub lombardo, opererà per tre anni sulle rotte critiche e potrà aggiungerne altre. Sul terzo filone, i voli intercontinentali, sono state sottoscritte due intese – una con Air France e l’altra con Iag (nata dalla fusione di British Airways e Iberia) – che miglioreranno la connettività tra Fiumicino e San Francisco, Washington e Toronto.
L’ultima svolta?
L’investimento di Lufthansa ammonta a 829 milioni di euro. Dopo la prima tranche da 325 milioni, che servirà per rilevare il 41 per cento, ce ne sarà un’altra per un ulteriore 49 per cento e una clausola di earn-out da 100 milioni. Entro il 2029 Lufthansa potrà poi esercitare l’opzione di acquisto del restante 10 per cento. Il closing dovrebbe avvenire a gennaio, con l’allargamento del cda: tre membri saranno nominati da via XX Settembre e due da Francoforte.
«È un buon accordo che potrebbe rappresentare un vero punto di svolta, dopo un quarto di secolo di fallimenti. Ita sembrava ripetere gli errori che hanno portato alla fine di Alitalia: pochi aerei utilizzati per il corto raggio e nessuna alleanza internazionale. Ma con l’acquisizione da parte dei tedeschi questo rischio sembra scongiurato», dice a Domani Ugo Arrigo, docente di Finanza pubblica all’Università Milano Bicocca e grande esperto di trasporti.
Sulla carta, il passaggio a Lufthansa chiude la triste vicenda della nostra compagnia di bandiera, che negli anni ha generato forti perdite: si calcola che lo stato abbia speso quasi 11 miliardi di euro in quarant’anni, la metà dei quali dal 2008 in poi. Tra momenti di gloria, lotte sindacali e rinascite, Alitalia è stata il simbolo di un paese che è risorto nel dopoguerra e poi emblema di politiche fallimentari. Ma perché la compagnia ha perso quote di mercato, anche quando i competitor facevano soldi?
Una crisi infinita
Fondata nel 1946 come Aerolinee italiane internazionali, Alitalia ha avuto la sua fase d’oro negli anni del boom economico. «Ma dopo un inizio di successo, la sua corsa è stata segnata da gestioni sconsiderate e scelte sbagliate», spiega Arrigo, già consigliere di amministrazione di Ita tra il 2022 e il 2023. La prima occasione persa è stata la liberalizzazione del mercato, all’inizio degli anni Novanta, quando la concorrenza delle compagnie low cost fece crollare costi dei biglietti e guadagni.
Gran parte dei vettori si adeguarono alla nuova realtà cercando capitali sul mercato e alleandosi tra loro. Per Alitalia, invece, il controllo statale era un dogma e le alleanze un tabù. «La crisi nasce dall’incapacità di reagire in modo adeguato alla liberalizzazione attuata dall’Unione europea, un evento tutt’altro che improvviso: l’azienda è stata uccisa dall’incapacità dello stato nell’affrontare la concorrenza e la fame di profitti dei gestori aeroportuali», dice Arrigo.
Nel 1996, con Romano Prodi a palazzo Chigi, la società guidata da Domenico Cempella aprì un tavolo per la fusione con gli olandesi di Klm. La strada era quella giusta, con Alitalia solida sul corto raggio e Klm sui voli intercontinentali. Ma la politica e le lobby interne all’azienda non digerirono l’intesa, mentre i sindacati rifiutarono di tagliare anche pochi posti di lavoro. Fino alla scelta degli olandesi di pagare 150 milioni pur di uscire dall’accordo e unirsi ad Air France.
Capitani coraggiosi
Dopo il crollo delle Torri gemelle, con sempre meno passeggeri e un’azienda stabilmente in perdita, il secondo governo Prodi raggiunse un accordo per cedere la compagnia ad Air France. A far fallire l’acquisto fu la strana alleanza tra i sindacati e il centrodestra. Di mezzo si mise Silvio Berlusconi, che lanciò lo slogan «Io amo l’Italia e volo Alitalia» e tuonò contro la cessione agli stranieri. Dopo la vittoria alle elezioni, affidò quindi l’azienda a una cordata di imprenditori di cui facevano parte Benetton e Ligresti, Caltagirone e Tronchetti Provera.
«In tutta la storia di Alitalia la scelta peggiore fu quella di Berlusconi, liberista per definizione: anziché vendere ad Air France, che avrebbe comprato con pochi esuberi, si inventò i “capitani coraggiosi” anche per salvare Air One dell’amico Carlo Toto», ricorda Arrigo. «Il piano Fenice era basato sulla “contrazione espansiva”, per cui lasciando a terra il personale e parte della flotta si sarebbe realizzata una crescita». Un’idea poco sensata, a cui si aggiunse la scelta di puntare sui voli domestici proprio alla vigilia dell’alta velocità ferroviaria.
Risultato: nel 2013 il bilancio chiuse con un rosso di 500 milioni e i capitani coraggiosi passarono il testimone a Etihad. Nel 2017 fu comunque necessaria una ricapitalizzazione e un nuovo piano industriale, con riduzioni di salari e occupazione, che fu respinto dai dipendenti con un referendum interno: «La vittoria del no – ha detto Carlo Calenda, allora ministro dello Sviluppo economico – porta anche la responsabilità dei sindacati e dell’idea, sbagliata, che alla fine a saldare i conti ci pensano i contribuenti».
Il passo successivo, inevitabile, fu l’ingresso in amministrazione straordinaria, con l’uscita di Etihad e di tutti i soci di minoranza, mentre il governo erogava due prestiti ponte da 900 e 400 milioni. Aiuti statali che non si sono fermati neanche con il passaggio a Ita, in seguito alla rinazionalizzazione della compagnia durante il secondo governo Conte. I sostegni sono serviti ad affrontare le nuove perdite del vettore, che solo nel 2023 ha registrato qualche segnale di ripresa.
Non passa lo straniero
Fil rouge di una storia così lunga è stato l’allergia del centrodestra a ogni ipotesi di vendita a un soggetto estero. L’operazione Ita-Lufthansa segna quindi un cambio di passo per il governo di Giorgia Meloni, i cui membri hanno sempre visto negativamente la vendita di asset italiani. Quando Prodi, nel 2008, andò vicino alla cessione di Alitalia ai francesi di Air France, Forza Italia, Lega e Alleanza nazionale accusarono il premier di svendere i «gioielli di famiglia».
In tempi più recenti si ricordano le parole del leader della Lega: «L’azienda non va svenduta a società straniere, ma valorizzata come compagnia di bandiera», diceva Matteo Salvini nel 2018. Un copione ripetuto anche dalla premier contro Giuseppe Conte, che «anziché pensare al bene pubblico lavora per la rendita di gruppi stranieri», e poi contro il governo Draghi. «Si fa presente ai signori della Lufthansa che non siamo sotto il dominio del Reich», diceva Fabio Rampelli (FdI) due anni fa.
La marcia indietro è arrivata una volta a palazzo Chigi, con la necessità di affrontare il debito pubblico e stimolare nuovi investimenti. «Oggi chiudiamo definitivamente un’annosa vicenda storica, è un successo per noi e per tutto il paese», ha detto il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Per il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, invece, la cessione coniuga «la tutela industriale della compagnia italiana con la difesa dell’interesse nazionale».
Ma i giudizi entusiastici, oggi, vengono soprattutto da Giorgetti. È lui il grande artefice dell’operazione, già da quando era allo Sviluppo economico con Draghi presidente del Consiglio. Fu Giorgetti, poi nominato al Tesoro, a stabilire che solo un partner come Lufthansa (e non il fondo di investimento Certares) poteva dare un futuro a Ita. E sempre al leghista si deve il negoziato con Bruxelles che ha portato al via libera finale.
© Riproduzione riservata