- Inflazione statunitense ai massimi da quarant’anni; Joe Biden sempre più apprensivo per l’erosione del consenso politico causata dagli elevati prezzi, soprattutto dei carburanti.
- Ora che il meme dell’inflazione “transitoria” è finito, difficile sfuggire alla sensazione che l’intera vicenda sia stata gestita con eccessive semplificazioni e subordinata a imperativi politici.
- Anche in Eurozona le criticità sono simili e si naviga avvolti dalla nebbia dell’incertezza, mentre ogni ipotesi di riduzione degli acquisti della Bce allarga lo spread Btp-Bund. Altro rischio è quello di prezzi energetici stabilmente più elevati, e della loro onerosità per i conti pubblici.
Il tasso di inflazione tendenziale negli Stati Uniti è arrivato a novembre al 6,8 per cento. Al netto delle componenti volatili di alimentari ed energia, la crescita dei prezzi è del 4,9 per cento. Si tratta dei nuovi massimi rispettivamente da 40 e 30 anni a questa parte.
Dopo aver trascorso gli ultimi mesi a parlare di «transitorietà», sulla scorta di quanto indicato dal presidente della Federal Reserve, Jay Powell, il presidente americano Joe Biden sta diventando apprensivo: alla vigilia della pubblicazione del dato ha sentito la necessità di emettere un inusuale comunicato in cui segnalare, tra le altre cose, che dopo la chiusura del periodo di rilevazione alcune pressioni sui prezzi si sono allentate, e che la tendenza al ridimensionamento sarà più evidente nei prossimi mesi.
L’inflazione fa male ai sondaggi
Poche cose sono corrosive per il consenso politico quanto l’inflazione, soprattutto quella alla pompa di benzina. Biden da mesi subisce le critiche di Larry Summers, già segretario al Tesoro di Bill Clinton, rettore di Harvard e alla guida del consiglio economico nazionale con Barack Obama, che da mesi segnala quelli che a suo giudizio sono errori di politica economica ma anche politici in senso stretto, alla base di una perturbazione inflazionistica che egli considera non temporanea.
Primo fra tutti, aver ecceduto in erogazioni di emergenza che hanno alimentato la domanda ben prima dell’approvazione del piano di “infrastrutture sociali” che per varie resistenze tra le differenti anime dei Democratici resta lontano dal traguardo.
Powell ha alla fine ritirato il vero e proprio meme della transitorietà, mentre in seno alla Fed è cresciuto l’orientamento ad accelerare il ritiro della parte di stimolo relativa agli acquisti di titoli di stato e obbligazioni ipotecarie, che ora pare potrebbe finire già al termine dell’inverno, per poi cedere il passo a rialzi dei tassi ufficiali.
Troppa politica
Difficile sfuggire alla sensazione che tutta la gestione della vicenda sia caduta vittima di semplificazioni e imperativi politici. Come scrivevo su questo giornale all’inizio dello scorso mese di settembre, la contraddizione tra una politica monetaria fortemente espansiva, che ha deciso di assumere un ruolo quasi fiscale e “sociale”, concorrendo a riassorbire la disoccupazione, e una realtà fatta di shock di offerta appariva destinata a creare emicranie alla politica e alla credibilità delle banche centrali. Così è stato.
Da mesi assistiamo a dibattiti spesso surreali tra addetti ai lavori dove si cerca di dimostrare che, al netto di alcune componenti di spesa, i prezzi non salgono più di tanto.
Alcuni economisti di orientamento liberal sono impegnati ad analizzare la derivata seconda dei dati per dimostrare che la tendenza è alla decelerazione.
Sin qui, è prevalsa la vulgata secondo cui i benefici delle erogazioni di Biden avrebbero protetto il potere d’acquisto degli strati sociali più poveri.
Abbiamo assistito anche a un dibattito su Twitter, in tal senso, tra Paul Krugman, sostenitore di tale tesi e Jason Furman, economista già alla guida del consiglio dei consiglieri economici di Obama, a ribattere che l’aumento di salari reali è frutto di una fallacia di composizione, perché circa 5 milioni di lavoratori, per lo più a bassa remunerazione, non sono più nelle liste degli occupati, e questo alzerebbe artificiosamente la media dei salari reali.
Il lato europeo
Sottigliezze da economisti a parte, anche in Eurozona la criticità si manifesta, pur se in forme differenti. La presidente della Bce Christine Lagarde cerca di barcamenarsi con la comunicazione di una materia che manifestamente non padroneggia, mentre il suo governing council dibatte tra posizioni diversificate, con relativi spifferi di una comunicazione cacofonica.
Persino Isabel Schnabel, la tedesca nel board della Bce che ha sin qui rappresentato un’interessante discontinuità con la scuola ordoliberale del presidente dimissionario della Bunsebank Jens Weidmann e predecessori, ora segnala che la politica monetaria troppo lasca potrebbe produrre più problemi che benefici.
Si discute anche su che fare alla scadenza dello stimolo pandemico, a marzo 2022. Proseguire con acquisti ordinari, ma per quanto tempo e quanto volume di fuoco?
A ogni ipotesi di ridimensionamento del supporto della Bce, lo spread tra Btp e Bund si allarga.
I mercati faticano a credere che il nostro paese riuscirà a reggersi da solo, in assenza di un compratore di ultima istanza così decisivo per il nostro debito pubblico.
A questo quadro va aggiunta un’ulteriore considerazione: che accadrà se i prezzi dovessero smettere di aumentare ma non tornare da dove sono venuti, soprattutto per voci socialmente sensibili come l’energia?
Da noi stiamo già vedendo crescenti quote di risorse pubbliche destinate a ridurre l’onere per i cittadini più fragili economicamente. Se questa situazione si rivelasse non transitoria, avremmo seri problemi di bilancio.
Quando si inserisce un sussidio ai consumi energetici, toglierlo è politicamente proibitivo.
Tutte variabili da tenere sotto osservazione per il prossimo futuro, mentre ci rallegriamo per la vibrante ripresa del nostro paese.
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