La promessa è la stessa da almeno vent’anni, declinata in forme diverse da tutti i governi. La sostanza però è questa. «Per finanziare la riduzione delle tasse taglieremo le spese fiscali». Un impegno solenne, mai rispettato. Adesso ci prova il viceministro Maurizio Leo, che con la legge delega appena approvata in Parlamento si è intestato la madre di tutte le riforme, destinata, almeno nelle intenzioni, a ricostruire dalle fondamenta l’intero sistema tributario italiano. Promesse e annunci, però, rischiano di restare tali se l’esecutivo non troverà in fretta i miliardi necessari a finanziare ogni singolo intervento tra le pieghe di un bilancio pubblico in perenne affanno.
Ecco, allora, che in mancanza di meglio ritorna l’idea di sempre: sgonfiare le spese fiscali, altrimenti dette tax expenditures, cioè la lunga lista di detrazioni, deduzioni, imposte sostitutive che ogni anno permettono a milioni di italiani di dare un taglio alle imposte da pagare. Un elenco lunghissimo, 626 voci che corrispondono a un minore incasso per lo Stato pari a circa 125 miliardi.
A illuminare una materia di per sé molto complessa c’è il rapporto che ogni anno viene redatto da una commissione istituita ad hoc nel lontano 2015 (governo di Matteo Renzi) per metter mano a una riforma delle agevolazioni auspicata già da tempo. Da allora, però, a dispetto dei ripetuti annunci, l’elenco delle tax expenditures si è arricchito di nuove voci, con oneri supplementari a carico delle casse pubbliche.
Sull’argomento è tornato il sottosegretario all’Economia Federico Freni, che in un’intervista pubblicata ieri da La Stampa ha annunciato «una razionalizzazione intelligente e oculata» di queste agevolazioni. Peraltro, lo stesso viceministro Leo in più occasioni ha citato anche la «rivisitazione» delle tax expenditures tra le misure collegate a una più ampia riforma dell’Irpef.
Una chimera
Facile a dirsi, perché se sulla carta il bacino a cui attingere è a dir poco ampio, incidere a fondo sulle spese fiscali significa minacciare interessi e privilegi consolidati nel tempo, con il risultato di innescare la reazione di lobby potenti. Giusto per fare due esempi concreti, autotrasportatori e imprese agricole pagano accise scontate sul gasolio con un costo per l’erario di oltre due miliardi l’anno. Il regime del cosiddetto «Patent Box», cioè la tassazione agevolata per i redditi derivanti dall’utilizzo di software protetto da copyright, brevetti industriali, disegni e modelli vale oltre 700 milioni che vanno puntellare i conti di decine di aziende grandi e piccole.
Pare difficile che il governo sia disposto a sopportare i costi politici di una riforma che in qualche modo riduca agevolazioni come quelle appena citate. D’altra parte, sono centinaia le spese fiscali che valgono ciascuna pochi milioni di euro, destinate a volte a qualche decina di beneficiari. Si va dall’Iva ridotta sui «tartufi freschi o refrigerati» alla detassazione delle mance ai croupier dei casinò fino all’esenzione dell’Irpef per i dipendenti di enti e società controllati dal Vaticano. Intervenire su questa miriade di microvoci risulterebbe molto complicato senza portare vantaggi consistenti per i conti pubblici.
Infine, ci sono gli aiuti destinati a una platea vastissima di contribuenti. È il caso dell’imposta di registro ridotta al 2 per cento per l’acquisto della prima casa, che ha un costo per lo Stato di 2,4 miliardi, come anche delle detrazioni per le spese mediche, che valgono più di tre miliardi l’anno e che, secondo i calcoli della commissione del Mef, nel 2022 sono state inserite in quasi la metà delle dichiarazioni dei redditi presentate in Italia: 19,5 milioni su un totale di 41 milioni. Anche il governo in carica, come i precedenti, ha garantito che spese mediche e imposte sulla prima casa non verranno toccate. La commissione del Mef auspica un intervento «sistemico (…), piuttosto che operazioni settoriali o voce per voce».
Le ragioni dell’inerzia
Resta da capire, però, quali saranno i criteri con cui verranno scelte le spese fiscali da eliminare o ridurre. Una questione che finora si è rivelata così complessa sul piano politico, più che tecnico, da stroncare sul nascere le velleità riformatrici dei precedenti esecutivi. L’inerzia non è casuale, se è vero che le spese fiscali sono utilizzate in prevalenza per «finalità politiche e di scambio con i vari gruppi di interesse», come si legge nell’ultimo rapporto della commissione ministeriale sulle tax expenditures. E allora si capisce perché il viceministro Leo non è mai entrato nel merito degli interventi che dovrebbero riformare un sistema che con l’andar del tempo si è trasformato in una giungla di mance e mancette della politica che garantiscono milioni di voti. A cui nessun partito è disposto a rinunciare.
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