Xioami, ZTE, Huawei e Baidu si lanciano in un mercato miliardario sostenuto dagli investimenti governativi il cui obiettivo è la guida autonoma, ma la domanda cinese inquina
- C’è chi dice che un’auto elettrica è come uno smartphone con quattro porte», ha scherzato l’amministratore delegato di Xiaomi presentando quella che ha definito «l’ultima impresa della mia vita».
- Xioami, ZTE, Huawei e Baidu si lanciano in un mercato miliardario sostenuto dagli investimenti governativi il cui obiettivo è la guida autonoma.
- Ma la domanda cinese inquina: migliaia di tonnellate di batterie da smaltire, mentre le miniere di nichel distruggono le barriere coralline.
C’è chi dice che un’auto elettrica è come uno smartphone con quattro porte», ha scherzato l’amministratore delegato di Xiaomi presentando quella che ha definito «l’ultima impresa della mia vita». Giacca e blue jeans d’ordinanza, la scorsa settimana Lei Jun ha annunciato con evento-show a Pechino che Xiaomi investirà negli electric vehicles (Ev) 1,5 miliardi di dollari nel 2021 e 10 miliardi nel corso del prossimo decennio. L’ex startup fondata il 6 aprile di undici anni fa dallo Steve Jobs cinese assieme a un manipolo di brillanti transfughi di Google e Motorola è diventata la numero tre al mondo per cellulari venduti (dietro a Apple e Samsung): una compagnia, quotata a Hong Kong, con oltre 18mila dipendenti (di cui 10 mila impiegati nella ricerca e sviluppo) e un fatturato di 245,9 miliardi di Rmb (circa 32 miliardi di euro) nel 2020 (+19,4 per cento).
Fin qui Xiaomi si era limitata a fornire l’elettronica di bordo alla Baojun E300, una citycar iper-connessa, e a investire (assieme ad Alibaba e Foxconn) nella Xpeng P7, l’anti-Tesla made in China. Ora ha rotto gli indugi, mentre movimenti analoghi si registrano nelle due grandi telco nazionali, Zte e Huawei, anch’esse pronte a lanciarsi in un business che – secondo le proiezioni del ministero dell’Industria e dell’informatica – varrà 154 miliardi di dollari all’anno soltanto in prodotti e servizi digitali per gli Ev. A gennaio Baidu (il motore di ricerca della Cina) aveva annunciato che fabbricherà i suoi Ev negli impianti di Geely auto. Mentre Alibaba aveva stretto una joint-venture con l’azienda di stato shanghaiese Saic motor, creando il marchio Intelligence Motion, che debutterà nel 2022 con una berlina e un Suv in grado di parcheggiarsi da sole. Nel novembre scorso, Didi (lo Uber cinese) aveva lanciato D1, l’auto elettrica costruita assieme a Byd.
Il governo punta a consolidare la posizione della Cina come mercato leader dell’automotive, bissando con gli Ev il primato globale che detiene dal 2009 per le auto tradizionali. Nel 2020 nella Repubblica popolare sono stati acquistati 1,3 milioni di Ev (il 41 per cento delle vendite globali). Solo l’Unione europea ha fatto meglio, con il 42 per cento, mentre gli Stati Uniti sono rimasti inchiodati al 2,4 per cento.
Quest’anno in Cina si punta a venderne almeno 1,8 milioni. Il XIV Piano quinquennale prevede che le elettriche saliranno dall’attuale 5 per cento al 20 per cento delle vendite annuali nel 2025. I segnali vanno in questa direzione: già nel 2020 le prime cinque startup di Ev hanno aumentato le vendite mediamente del 150 per cento e Volkswagen (presente dal 1985 in Cina, dove ha 24 stabilimenti) l’anno scorso ha registrato un più 50 per cento di Ev venduti.
Nel momento in cui il mercato delle elettriche sta decollando, si stringono alleanze strategiche tra le big dell’hi-tech, che forniscono il know how per quanto riguarda big data, cloud, mappe digitali e altre tecnologie, e le case automobilistiche tradizionali, alle cui filiere consolidate viene affidato l’assemblaggio dei veicoli. L’obiettivo ultimo è la guida autonoma, per la quale i colossi di internet, dell’informatica e della telefonia sono indispensabili, con le reti 5G, internet delle cose, l’intelligenza artificiale e i servizi cloud. Finora il mercato è stato dominato da un modello low cost e da un’auto americana. La “macchina elettrica del popolo”, la Hongguang Mini Ev – lanciata l’estate scorsa dalla joint-venture tra Saic, General Motors e Wuling – nonostante la sua scarsa autonomia (120 chilometri), ha conquistato i cinesi con un prezzo imbattibile (4 mila euro) e la possibilità di essere guidata in città anche dai non patentati. Model 3 di Tesla (fabbricata in Cina), a dispetto del costo (250 mila Rmb, poco più di 32 mila euro), invece ha sfondato tra una classe media che ha potuto risparmiare durante i lockdown, e che ha confermato che per i cinesi l’automobile rappresenta tuttora un potente status symbol.
Obiettivo neutralità climatica
Secondo i dati del ministero della Pubblica sicurezza, nel 2020 in Cina circolavano 360 milioni di veicoli a motore, tra cui poco più di 4 milioni di Ev. Nelle megalopoli cinesi soffocate dallo smog (sono 12 quelle attraversate da oltre 3 milioni di veicoli a motore) il traffico automobilistico rappresenta una fonte rilevante di emissioni di polveri sottili, che si somma a quelle delle fabbriche e dei cantieri. A Pechino circolano oltre 6 milioni di automobili: secondo l’Ufficio municipale per la protezione ambientale, il 22 per cento delle emissioni di PM 2.5 della capitale origina proprio dai tubi di scappamento. Nel 2019 in Cina i gas di scarico dei veicoli a motore hanno immesso nell’aria 7,7 milioni di tonnellate di CO2. Secondo la rivista scientifica The Lancet, nel 2017 nel paese 1,27 milioni di persone sono morte a causa dell’inquinamento atmosferico.
La sostituzione dei veicoli a motore con gli Ev rappresenta una tappa importante verso la neutralità climatica (il punto in cui le emissioni non superano la capacità della terra di assorbirle), traguardo che la Cina – che con il 28 per cento è il principale emettitore di CO2 del pianeta – si è impegnata a raggiungere entro il 2060.
Per questo i veicoli elettrici sono stati sostenuti dal governo, che ha sussidiato direttamente gli acquirenti. Ma la crescita del mercato permetterà di ridurre questi aiuti del 20 per cento già da quest’anno. Nell’ambito del XIV Piano quinquennale, la strategia del governo per promuovere l’auto elettrica si articola in tre punti. Anzitutto si cercherà di controllare e gli investimenti nel settore – anche istituendo un ente regolatore – per favorirne uno sviluppo razionale, evitando che imprenditori e governi locali – come avvenuto in passato in tanti settori – aumentino eccessivamente la produzione. In secondo luogo sarà potenziata l’infrastruttura. Il premier, Li Keqiang, ha spiegato che continueranno gli investimenti statali per incrementare la disponibilità di colonnine di ricarica e di stazioni di ricambio delle batterie. Attualmente sono attive 555 stazioni di scambio di batterie (una tecnologia usata dalle case cinesi, ma non da Tesla), mentre il grosso dei “rifornimenti” avviene attraverso le 63.600 stazioni di ricarica, per 1,67 milioni di colonnine.
Il costo ambientale degli Ev
Le batterie rappresentano il rovescio della medaglia, l’aspetto meno rassicurante di quest’ennesima nuova esplosione di domanda cinese che, come al solito, si riverbera ben oltre i confini nazionali. Quelle attualmente in circolazione hanno un ciclo di vita di una decina d’anni. Secondo il ministero dell’Ecologia e dell’ambiente, nel 2020, se ne saranno accumulate circa 200mila tonnellate non più adatte ad alimentare i motori degli Ev. Li ha assicurato che il governo favorirà una seconda vita per batterie esauste, in applicazioni meno energivore. Ma non sarà solo la fase del riutilizzo e dello smaltimento a presentare enormi problemi quando, nel 2025 – secondo uno studio del quindicinale Caixin – in Cina le batterie scariche delle automobili avranno superato le 600mila tonnellate. La ricerca del nichel, componente essenziale per queste enormi pile, nel 2030 aumenterà di sei volte, e a farne le spese saranno ecosistemi fragili quanto indispensabili per le economie locali come quello delle barriere coralline nella zona orientale dell’Indonesia e di Papua Nuova Guinea. In quell’aera ci sono i maggiori giacimenti di nichel e, già oggi, 220 milioni di tonnellate di materiale di risulta delle miniere – altamente nocivo – vengono sversati ogni anno direttamente nell’oceano, nei fiumi e nei laghi. Alcune compagnie cinesi che operano nei due arcipelaghi hanno iniziato a promuovere soluzioni di smaltimento “eco-compatibili”. Altre no. Tanto da spingere Storebrand, il maggior fondo d’investimento norvegese, a escludere dal suo portafoglio la Mettallurgical Corporation of China proprio per non essere complice della devastazione della barriera corallina operata dalla miniera di nichel e cobalto a Ramu, in Papua Nuova Guinea.
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