Come era lecito attendersi, le maggiori attenzioni di quanti hanno commentato i recenti dazi sull’export cinese voluti dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, si sono concentrate sui settori più visibili e chiacchierati, l’auto elettrica in primis. Pressoché nessuno ha invece nominato il fatto che, nella lista dei prodotti sottoposti ad aumenti delle tariffe, sia incluso anche un oggetto che, a prima vista, ben pochi troverebbero significativo o strategico: le gru che si occupano del carico e scarico delle navi portacontainer.

Trattasi di grave miopia. Che non solo sottovaluta il ruolo della logistica e dei trasporti intermodali come tessuto connettivo delle supply chain industriali (sì, anche, in questa epoca di sglobalizzazione) ma disconosce la specificità con cui, negli ultimi decenni, la Cina ha costruito un vero e proprio impero nel settore.

È dai primi anni Novanta – per la precisione dai tempi dell’ “ottavo piano quinquennale di sviluppo” del 1991 – che il governo della Repubblica Popolare ha dato priorità agli investimenti nella logistica – dai cantieri navali ai porti, dalle strade alle ferrovia – poiché, già ai tempi di Deng Xiaoping, Pechino aveva compreso che la forza della logistica era un ingrediente indispensabile alla crescita dell’industria.

Attività “duale”

Una logistica efficiente abbatte costi e tempi di circolazione di merci e componenti e, così facendo, rende più competitive le manifatture e gli export di cui l’economia cinese si è a lungo servita per crescere. 

Sette dei dieci porti più trafficati del mondo sono in Cina. Due delle prime cinque aziende di costruzione navale al mondo hanno sede a Pechino. Il 90 per cento dei container in circolazione nel mondo sono prodotti in Cina e così via. Negli dopoguerra gran parte di questi record erano saldamente in mano agli Stati Uniti (o in alcuni casi all’Europa).

L’investimento di Pechino per strapparli all’occidente non è stato leggero ma trattandosi in molti casi di attività industrialmente “pesanti”, esso si è ripagato in termini di occupazione, motilità finanziaria e ricadute su altri settori.

La logistica insomma non è fine a sé stessa neppure come voce di spesa. Aggiungiamo a questo quadro che le logistica è, per definizione, attività “duale”, ovvero un’industria in cui basta poco per passare dall’uso civile a quello militare delle infrastrutture e dei mezzi.

Poco considerata

È così che si spiega la mossa di Biden sulle gru portuali: un elemento cardine nel movimento globale dei container da cui, oltretutto, è possibile ricavare grandi moli di dati sull’andamento e i flussi di un’intera economia (è stata anche avanzata l’ipotesi che, attraverso le gru di loro produzione installate sui moli americani, i cinesi siano in grado di spiare, o persino sabotare, le attività portuali degli Usa).

L’attenzione con cui Cina e Stati Uniti competono nella logistica del mare, in quanto settore altamente strategico per entrambe, ci ricorda l’insufficiente considerazione che questo tema gode in Italia. A causa di problemi operativi e di ritardi infrastrutturali, aggravati di recente dalla crisi di Suez, l’Italia della logistica marittima non riesce a essere all’altezza del ruolo che la sua posizione geografica da “portaerei del Mediterraneo” le consentirebbe di recitare. Ci troviamo così a convivere col paradosso per cui industrie della Pianura Padana vengono servite dal porto di Rotterdam anziché da Genova o Trieste.

E dire che dal punto di vista degli investimenti privati, il settore ha vissuto un buon periodo. Ciò che cronicamente manca, ed è mancato in passato, è una visione di politica industriale che consideri le specifiche esigenze e le opportunità di ogni litorale e le traduca in una visione complessiva delle nostre coste (e dei relativi flussi d’entroterra) come “sistema logistico” complessivo. Esattamente ciò che ha fatto la Cina per anni e che gli Stati Uniti sembrano ora intenzionati a tornare a fare.

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