Lula, l’ex operaio metalmeccanico che guida il Brasile per la terza volta, vuole trasformare l'economia del suo paese, conciliando stato e mercato, investimenti pubblici e privati, crescita e tutela dell’ambiente.

Nel più grande paese sudamericano, la nona economia del mondo, subito dietro l’Italia, la ricchezza – nonostante miglioramenti redistributivi – è ancora concentrata nelle mani di pochi: l’1% della popolazione ne detiene quasi la metà, un bambino su due vive in povertà, soprattutto quelli delle famiglie afro-brasiliane e indigene.

Il muscolo dell’economia brasiliana, cosi come dell’America Latina, è l’esportazione di materie prime e prodotti agricoli, il 55% dell’export, con poco valore aggiunto e ipersensibile alle fluttuazioni della domanda internazionale.

I piani

Il programma di trasformazione dell’economia di Lula è una riedizione dei suoi due precedenti governi (2003-2011), aggiornato ai tempi della crisi climatica e della trasformazione tecnologica, e prevede un ruolo di guida dello stato.

A sostegno del programma hanno lavorato in molti, tra loro l’italo-statunitense Mariana Mazzucato, un’economista progressista, la quale negli ultimi anni ha prestato consulenze a molti governi latinoamericani.

Secondo Mazzucato «il governo svolge un ruolo catalizzatore nel creare e plasmare i mercati attraverso partenariati pubblico-privati dinamici» e non deve limitarsi a correggere i fallimenti di mercato. Il suo lavoro in Brasile è probabilmente il suo punto più alto di influenza sulle politiche industriali dei governi latinoamericani.

Uno degli ingredienti del programma è reindustrializzare un paese che ha perso molto della sua industria negli ultimi trent’anni: nel 2023 la manifattura valeva il 10,8 del PIL, nel 1985 era il 36%.

Mentre si riduceva il peso della manifattura – un settore con maggiore valore aggiunto, maggiore produttività e salari più alti, fondamentale per una crescita stabile – cresceva quello del settore dell’agro-export, supportato dalla deforestazione dell’Amazzonia, per produrre soia (un sesto dell’export) diretta in Cina.

A gennaio di quest’anno il governo brasiliano ha presentato Nova Indústria Brasil, un piano decennale per supportare la reindustrializzazione del paese, con sei missioni prioritarie: agroindustria, sanità, qualità della vita nelle città, digitalizzazione, transizione energetica, difesa militare.

Nova Indústria Brasil

Nova Indústria Brasil è nata all’interno del Consiglio nazionale per lo sviluppo industriale, organismo tripartito, con la partecipazione di imprese, sindacati e del governo (in particolare il Ministero dell’industria che attua la politica e la banca di sviluppo BNDES che la finanzia).

Per un trimestre sono state raccolte proposte di modifiche della politica. Il primo merito di Nova Indústria Brasil è la sua esistenza, dicono gli economisti più esperti di politica industriale in America Latina.

Per far funzionare la politica, il governo vuole usare tutte le leve a sua disposizione. Innanzitutto le risorse: 55 miliardi di euro fino al 2026, in crediti, risorse a fondo perduto, investimenti pubblici, incentivi fiscali. E poi le imprese pubbliche.

Il Brasile ne ha 125, che impiegano oltre 400mila lavoratori, molte delle quali sono attori economici rilevanti: tre di queste sono tra le prime 500 imprese al mondo per fatturato annuale. La nomina a maggio scorso da parte di Lula di una nuova amministratrice delegata, l’ingegnere civile Magda Chambriard, serve ad allineare l’azione della compagnia energetica Petrobras agli obiettivi di politica industriale del governo.

Di fianco agli investimenti pubblici, il Brasile punta ad attrarre quelli privati nel settore industriale. Innanzitutto quelli cinesi – il primo partner commerciale del Brasile – a maggio, a seguito di una visita di stato, lo scorso mese, del vicepresidente brasiliano Alckmin in Cina, Pechino ha annunciato investimenti e prestiti per 4 miliardi di euro. Anche l’Italia investe in Brasile.

Durante il vertice G7 in Puglia, dopo un incontro tra Lula ed i vertici di Enel, è stato annunciato un aumento del 45% degli investimenti, per un totale di 3,5 miliardi di euro, e un aumento della forza lavoro. Lula sì è detto disponibile a rinnovare i contratti di concessione con l’azienda italiana, dopo le tensioni tra governo e impresa a seguito di interruzioni del servizio a San Paolo, legate a fenomeni climatici estremi.

Gli scogli

Durante i governi del PT (2003-2015) sono state adottate varie politiche industriali, quella più ambiziosa, la Politica di Sviluppo Produttivo del 2008, doveva trasformare la struttura economica del paese, ma fu azzoppata dalla crisi globale. Con i governi di destra di Temer e Bolsonaro (2016-2023) le politiche industriali scomparvero, Nova Indústria Brasil è il quarto tentativo del PT di reindustrializzare il Brasile. Riuscirà Lula nel suo obiettivo?

Ci sono almeno due ostacoli sul suo cammino. Il primo è Roberto Campos Neto, governatore della Banca Centrale, e il suo monetarismo rigoroso, con tassi d’interesse tra i più alti in America Latina, incompatibili con gli obiettivi di politica economica di Lula.

Il braccio di ferro tra i due va avanti da mesi, Lula ha criticato aspramente Campos Neto, accusandolo di non essere autonomo dalla parte politica, il bolsonarismo, che lo ha nominato nel 2019, e di sospettare che il governatore punti ad un incarico politico.

Negli ultimi mesi, la linea della Banca è gradualmente cambiata, grazie all’influenza dei consiglieri (4 su 9) nominati da Lula. A fine anno si rinnovano i vertici della Banca e Lula spera in un governatore che possa accompagnare il cammino dello stato imprenditore brasiliano. Il secondo è il consenso parlamentare. Come si può attuare un piano sistematico come Nuova industria Brasile, con mete, obiettivi, risorse, pensato per uno stato razionale e poderoso, con un governo in minoranza al Congresso?

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