In queste settimane di discussione della legge di bilancio, molto si è parlato delle dimensioni del finanziamento della spesa per il Servizio Sanitario Nazionale. Le risorse, ovviamente, contano. Dirimenti, sono, tuttavia, anche le modalità di erogazione.

Certo, anche le modalità di erogazione risentono delle risorse. È difficile mantenere fiducia e disponibilità a cooperare quando ci si trova a lavorare in un contesto da anni oggetto di incuria (c’è voluta la pandemia per sciogliere peraltro parzialmente il blocco delle assunzioni introdotto nel 2005, e ancor oggi si è tornati a rimandare le assunzioni), mentre la sanità privata è stata saldamente sostenuta (attraverso sia le agevolazioni fiscali alle assicurazioni private sia l’accreditamento e il convenzionamento delle strutture private).

Ciò nondimeno, il Servizio sanitario, come altri ambiti sociali, soffre anche di limiti che derivano da una visione di pubblico che, in diverse istanze, sembra combinare due mali. Contempla un approccio top down standardizzato e gerarchico, disattento alla voce e alla partecipazione dei diversi attori quali co-decisori e co-produttori delle politiche, nonché alla natura delle relazioni, peraltro in contrasto, con la visione originaria del Servizio.

E, al contempo, unisce a questo l’approccio dei cosiddetti quasi mercati, dove le parole chiave sono aziendalizzazione, esternalizzazioni, impatto finanziario, riduzione della salute a prestazioni sanitarie, logica del cliente/consumatore, piegando l’azione pubblica a una logica prestazionale che mima il mercato.

Questo secondo approccio, secondo i suoi sostenitori avrebbe dovuto contrastare i limiti del primo, ma non solo non vi è riuscito. Ne ha provocato di nuovi, favorendo svalutazione del lavoro di cura e mercificazione di un bene il cui valore primario dovrebbe essere quello intrinseco di favorire la salute di tutti e tutte. Il risultato è anche una disattenzione allo scaricamento dei costi della cura sulle famiglie e in primis sulle donne.

Questa visione va cambiata. Dobbiamo pensare a una nuova visione di pubblico che, andando oltre il mero riferimento alla natura proprietaria, si focalizzi sulla funzione pubblica, ossia, sul produrre beni che sono di tutti e tutte, in quanto fondamentali per il nostro vivere.

Ciò richiede universalismo, con riferimento sia ai beneficiari sia alla qualità delle opportunità assicurate, contro risposte residuali, categoriali, e di ritorno a un welfare censitario o di differenziazione sulla base delle dotazioni regionali; attenzione all’integrazione fra servizi, nel riconoscimento della natura multidimensionale degli svantaggi e contro schemi per silos; attenzione alla natura delle relazioni e alla valorizzazione di tutti i lavori; partecipazione dei diversi soggetti, dai beneficiari individuali dei diversi interventi al personale, alle comunità.

Attenzione anche alle tante organizzazioni della cittadinanza attiva e della cooperazione sociale che nelle comunità operano e che non possono continuare a essere interpretate solo in una funzione meramente prestazionale – o peggio come serbatoi di manodopera a basso costo – ma come attori di un’integrazione virtuosa funzionale al mantenimento della funzione pubblica dei servizi e delle prestazioni. Infine occorre valutare le nostre pretese rispetto agli effetti sugli altri: se qualcosa è di tutti e tutte, alcuni non possono volerne più degli altri senza adeguata giustificazione.

Si tratta di una sfida politica e culturale complessa. Ma va affrontata se non vogliamo arrenderci al costante svuotamento del welfare. Il Forum Disuguaglianze e Diversità ha pubblicato un primo documento centrato su un’occasione importante anche per proseguire questa riflessione, la realizzazione delle Case della Comunità previste dal Pnrr.

Seguendo l’approccio tipico del ForumDD, di cercare di unire diversi saperi (quelli più accademici e quelli più del fare) e facendo leva sulle diverse e fertili esperienze già esistenti nel nostro paese, il documento analizza nel dettaglio i limiti della visione predominante sopra ricordati, prospettando alcune vie per Case della Comunità centrate sull’integrazione socio-sanitaria, rette da modalità di governo/governance partecipate, attente alla natura delle relazioni e alla valorizzazione di tutti i lavori.

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