In primavera, quando scadrà il blocco dei licenziamenti, al ministero stimano almeno 800mila disoccupati. La ministra Catalfo ha convocato per domani un tavolo con i sindacati: a loro consegnerà le sue proposte
- Tra gli scenari disegnati dagli esperti del ministero del Lavoro, quello più realistico ipotizza che, scaduto il blocco dei licenziamenti e le misure di cassa integrazione, ci saranno tra gli 800mila e un milione e mezzo di disoccupati.
- La ministra del Lavoro Nunzia Catalfo ha messo a punto una riforma degli ammortizzatori sociali che doveva entrare in vigore il primo aprile. Anche se con la crisi in corso il rischio è che la cura arrivi a paziente già deceduto.
- Tra le altre misure, la riforma dovrebbe includere l’allungamento della Naspi a 36 mesi e un ombrello di protezione per le micro imprese.
Un’onda anomala rischia di schiantarsi sul mondo del lavoro nei primi giorni di primavera: il 31 marzo scade il blocco dei licenziamenti decretato dal governo per l’emergenza Covid.
Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli (M5s) non esclude una nuova proroga (che non piace alla Confindustria) ma non prende impegni, avvertendo che «ciò che conta è garantire il prolungamento della cassa integrazione gratuita, senza costi aggiuntivi per le imprese».
Gli scenari
Le proroghe però non possono durare all’infinito. Appare insostenibile mantenere indefinitamente gli attuali livelli di cassa integrazione finanziata dalla fiscalità generale, con 6,7 milioni di lavoratori coinvolti tra ordinaria, straordinaria e in deroga. Quindi la botta arriverà.
Gli esperti messi in campo dalla ministra del Lavoro Nunzia Catalfo (M5s) ipotizzano tre scenari possibili collegati all’andamento dell’economia e della pandemia.
Quello giudicato più realistico prevede, alla luce degli ultimi dati Eurostat, che l’emorragia di posti di lavoro possa colpire 800mila lavoratori in Italia. L’ipotesi peggiore è che i licenziamenti arrivino a un milione e mezzo, come paventato dall’Ocse a luglio.
La riforma appesa alla crisi
Così la ministra Catalfo ha rotto gli indugi e ha convocato per domani il tavolo con le parti sociali per illustrare la sua proposta di riassetto dell’intero sistema degli ammortizzatori sociali. Finora ha anticipato solo i pilastri su cui si baserà: universalismo, allargamento della platea dei lavoratori con paracadute sociale, semplificazione e collegamento alle politiche attive del lavoro, cioè formazione e incontro con la domanda.
Ma da settembre scorso, quando le 35 pagine della prima bozza di riforma hanno cominciato a circolare tra gli addetti ai lavori, molte indiscrezioni e obiezioni hanno iniziato a trapelare e la bozza che sarà domani sul tavolo di via Flavia è stata quasi completamente riscritta. Con un unico punto fermo, per ora, la data nella quale dovrebbe prendere avvio: il primo aprile. Un comitato di cinque esperti guidato dal giuslavorista Marco Barbieri è stato incaricato dalla ministra di disegnare una struttura omogenea nella quale incanalare ciò che al momento è una babele di misure di integrazione al reddito, procedure e fonti di finanziamento diversificate e complesse, incluse le competenze delle regioni sui centri per l’impiego e la cassa in deroga.
La pandemia ha fatto emergere in tutta la sua drammaticità il bisogno di protezione di milioni di lavoratori fuori dai radar, precarizzati già dalla crisi del 2008. Il governo è stato costretto a intervenire, stanziando oltre 20 miliardi a debito, per estendere le coperture che in alcuni casi sono risultate preziose. Come nel caso di Giuliano Tagliacozzo, piccolo imprenditore romano, riuscito ad attraversare il deserto del primo lockdown.
«A marzo quando abbiamo dovuto chiudere ero terrorizzato. Dopo il decreto Cura Italia sono andato dal mio ente bilaterale e ho scoperto di essere uno dei pochi ad aver sempre versato i contributi», racconta. «L’ente non aveva abbastanza fondi, ho anticipato io la cassa integrazione, che comunque era ridicola, 600 euro a testa, e allora ho aggiunto di tasca mia fino a mille euro, come si fa a vivere con meno? Poi ho recuperato tutto. Lavorando al 90 per cento con clientela estera, gli ordinativi sono addirittura aumentati».
Naspi a 36 mesi
Con la riforma a regime, il paracadute anche per quanto riguarda le micro imprese dovrebbe diventare permanente, con uno standard minimo da versare parametrato al reddito di cittadinanza (780 euro mensili). La riforma punta anche a rivedere la Naspi, il sussidio di disoccupazione ora erogato per un massimo di 24 mesi con importi a scalare.
Nella bozza si prevede di allungarne la durata a 36 mesi e senza décalage. Il governo ha già varato poi con la legge di Bilancio l’Iscro (Indennità straordinaria di continuità reddituale e operativa) per i professionisti autonomi iscritti alla gestione separata Inps, una piccola porzione del milione e 200mila autonomi. Ma si tratta solo di un altro rattoppo. Offre benefici limitati che per essere ottenuti devono attendere la verifica del calo di fatturato nell’anno successivo. Quindi anche su questo punto si rimanda alla riforma che però, come avvertono gli esperti, avrà bisogno di almeno tre anni per andare a regime, il Jobs act insegna e poteva contare su una maggioranza parlamentare solida.
Ora il rischio è che la cura arrivi a paziente ormai deceduto. Per Tiziano Treu, ex ministro e oggi presidente del Cnel, la situazione in Italia «sta per esplodere» e oltre a spendere per aiutare lavoratori e imprese, bisogna rimettere in moto l’economia con l’uso dei fondi europei».
La riconversione
La riforma degli ammortizzatori serve anche per sostenere l’attuazione del Recovery plan. L’idea di fondo è che il finanziamento degli ammortizzatori sociali dovrebbe tendere a una gestione su base assicurativa, con controlli più efficienti sull’evasione contributiva delle imprese. È uno dei punti che però meno convince Confindustria, soprattutto per le piccole e medie imprese. Confindustria punta i piedi anche contro il mantenimento della cassa per cessazione di attività, reintrodotta nel 2018. Gli industriali temono che perpetui l’assistenzialismo per aziende decotte. L’obiettivo di rafforzare le cosiddette «politiche attive del lavoro» va perseguito, ma secondo i sindacati coordinando i centri per l’impiego e gli assegni di ricollocazione, finanziati anche dalle imprese. E potrebbe non bastare.
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