Soltanto con la modernizzazione del paese si può raggiungere l’obiettivo di una “moderata prosperità”. Per riuscirci, Xi Jinping punta tutto sull’innovazione autoctona, mentre sale l’ostilità verso l’occidente
- L’ex fabbrica del mondo, che a partire dagli anni Novanta ha lavorato in outsourcing per le grandi multinazionali, si sta trasformando in concorrente delle economie avanzate.
Sono queste dinamiche ad aver ispirato il XIV Piano quinquennale approvato l’11 marzo scorso dall’assemblea nazionale del popolo, che punta sulla innovazione autoctona, per centrare due obiettivi: l’indipendenza tecnologica, e lo sviluppo del mercato interno.
La parola d’ordine è “doppia circolazione”, cioè ridurre la dipendenza dall’export (attualmente il 17 per cento del Pil) e dagli investimenti pubblici, facendo crescere la «produzione, la circolazione e i consumi interni».
Il birrificio Tsingtao a Qingdao, la fabbrica di elettrodomestici Midea a Shunde, gli stabilimenti di Ict Wistron a Kunshan, Foxconn a Chengdu, e la Bosch automotive a Suzhou. Sono cinesi cinque dei 15 siti appena aggiunti dal World economic forum alla classifica che rappresenta l’avanguardia della quarta rivoluzione industriale. Nel “Global lightouse network” figurano 69 compagnie che hanno incrementato la produttività combinando robotica, intelligenza artificiale e internet delle cose. E, per la prima volta, quelle nella Repubblica popolare (20) hanno superato le europee (19), statunitensi (7), e giapponesi (5).
Obbligata a innovare
Pechino è obbligata a innovare. In conseguenza dell’invecchiamento della popolazione è venuto meno il cosiddetto “dividendo demografico” – l’abbondanza di manodopera a basso costo – che ha garantito la competitività dell’industria cinese per oltre 30 anni. Inoltre l’ex fabbrica del mondo, che a partire dagli anni Novanta ha lavorato in outsourcing per le grandi multinazionali, si sta trasformando in concorrente delle economie avanzate. La guerra commerciale e l’embargo decretato da Trump contro Huawei hanno evidenziato l’urgenza di produrre in patria quelle “componenti chiave”, a partire dai microprocessori (nel 2020 la Cina ne ha importati per 350 miliardi di dollari) indispensabili nei macchinari e nei beni di consumo. Infine la pandemia ha messo a nudo la fragilità delle catene di fornitura che hanno reso la Cina il fulcro dell’economia globale.
Verso l’innovazione
Sono queste dinamiche ad aver ispirato il XIV Piano quinquennale (2021-2025), approvato l’11 marzo scorso dall’assemblea nazionale del popolo, che punta sulla innovazione autoctona (zìzhŭ chuàngxīn), per centrare due obiettivi: l’indipendenza tecnologica, e lo sviluppo del mercato interno.
Nel prossimo lustro e oltre (al piano sono allegati gli obiettivi di lungo termine fino al 2035) verrà data priorità alle tecnologie di frontiera: semiconduttori, intelligenza artificiale, informatica quantistica, ma anche reti 5G (si mira a una copertura del 56 per cento del territorio nazionale entro il 2025) e veicoli a energia pulita. A tal fine il governo aumenterà la spesa per ricerca e sviluppo di almeno il sette per cento annuo, la rete dei 515 laboratori (di stato) d’eccellenza sarà ristrutturata e a essa verranno affiliate anche grandi aziende hi-tech private in possesso di enormi quantità di dati e algoritmi avanzati. Sarà incentivata l’importazione di talenti (scienziati, ma anche manager), soprattutto cinesi formati all’estero.
Prosperità moderata
La nostra manifattura – ricordano gli economisti cinesi – «è grande (un terzo del Pil mondiale, ndr), ma non forte». Una recente ricerca del Consiglio di stato ha evidenziato deficit di qualità, innovazione, competitività, eco-compatibilità. L’ex ministro dell’Industria Miao Wei ha avvertito che la rincorsa della Cina potrebbe durare 30 anni.
Dopo aver dichiarato solennemente vittoria contro la povertà assoluta, alla vigilia delle celebrazioni per i cento anni dalla fondazione (il 23 luglio 1921) del Partito comunista cinese, Xi proclamerà la nascita di una “società moderatamente prospera” (xiăokăng shèhuì) con un reddito pro capite superiore a 9mila dollari, raddoppiato rispetto ai 4.550 registrati nel 2010 dalla Banca mondiale. Il XIV Piano quinquennale viene presentato come una tappa decisiva per l’avvento di un “grande paese socialista moderno” entro il 2049, un secolo dopo la proclamazione della Repubblica popolare. I due “obiettivi dei centenari” non sono semplici slogan, ma indicano una strategia, quella modernizzazione che, dalla seconda metà dell’Ottocento, hanno inseguito tutti i leader politici e intellettuali cinesi, i riformisti prima e, in seguito, i comunisti: affrancarsi dagli stranieri, diventare un paese forte e un popolo ricco (qiángguó fùmín).
Un rivale sistemico
Cresce però l’ostilità di un occidente che si era illuso che all’ascesa della Cina si sarebbero accompagnate aperture politiche. La Repubblica popolare è diventata anche un “rivale sistemico”, secondo la definizione della Commissione europea. La “Nuova era” di Xi si fonda su due elementi essenziali: il rafforzamento del ruolo guida del Partito nell’economia e nella società; la diffusione di un amalgama fatto di marxismo, confucianesimo e nazionalismo, una grande muraglia ideologica per fermare la penetrazione dei valori liberali. Anche il varo del Piano è stato accompagnato da una narrazione propagandistica a media unificati che contrappone l’efficace contenimento dell’epidemia di Covid-19 da parte del sistema socialista alle centinaia di migliaia di morti nelle democrazie occidentali.
Tuttavia per la prima volta il Piano non ha indicato l’obiettivo di crescita media del Pil (che gli economisti stimano intorno al 5 per cento da qui al 2035). E i media ufficiali hanno riconosciuto che questa novità «riflette anche le incertezze crescenti sull’economia cinese, sulla quale incidono la situazione globale avversa, una ripresa interna incerta, limitata da consumi e investimenti insufficienti».
In una fase di ristrutturazione delle catene di fornitura, che diventeranno sempre più regionali, Pechino potrà fare affidamento sui suoi vicini, in particolare sulla Regional comprehensive economic partnership (Rcep), l’area di libero scambio istituita nel novembre scorso dai dieci paesi dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean), assieme a Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. A Pechino stimano che, nel 2030, la Cina potrebbe arrivare esportare all’interno della Rcep beni per un valore di circa 250 miliardi di dollari, insufficienti per compensare le perdite di un’eventuale guerra commerciale prolungata, ma importanti per ridurre la dipendenza dall’export verso gli Usa (471 miliardi di dollari nel 2019).
Doppia circolazione
L’era della iper-crescita è un lontano ricordo, oggi si punta più modestamente a «mantenere i principali indicatori economici all’interno di valori appropriati». Il processo di urbanizzazione continuerà a costituire un importante fattore di stimolo economico, con l’obbiettivo di aumentare la popolazione residente in città dall’attuale 60 al 65 per cento. Il tasso di disoccupazione andrà contenuto entro il 5,5 per cento. C’è spazio anche per la lotta all’inquinamento, che sta a cuore alla classe media e che potrà costituire un primo terreno d’incontro con l’amministrazione Biden, con la quale Pechino ha appena istituito un gruppo di lavoro sui cambiamenti climatici. Si punta a ridurre del 18 per cento entro il 2025 le emissioni di diossido di carbonio per unità di Pil rispetto ai livelli del 2020; del 13,5 per cento il consumo di energia per unità di Pil, nello stesso periodo; ad aumentare (dal 23,2 per cento nel 2019) al 24,1 per cento nel 2024 la porzione di territorio nazionale ricoperto da foreste; e a portare al 20 per cento nel 2025 (dal 15,9 per cento nel 2020) le fonti non fossili nel mix energetico del paese.
La parola d’ordine è “doppia circolazione”, cioè ridurre la dipendenza dall’export (attualmente il 17 per cento del Pil) e dagli investimenti pubblici, facendo crescere la «produzione, la circolazione e i consumi interni».
Ma la domanda interna, al di fuori delle megalopoli, langue. La scorsa primavera il premier cinese, Li Keqiang, aveva scattato un’impietosa istantanea delle disuguaglianze sociali di un paese dove vivono 389 miliardari inseriti nella classifica di Forbes, ricordando che «600 milioni di persone hanno un reddito mensile di appena 1.000 yuan» (circa 130 euro). Affinché la domanda interna diventi il traino dell’economia, andrebbe raddoppiata la classe media (portandola a 800 milioni di persone), e dato un welfare a quei 170 milioni migranti (su 290 milioni, un terzo del totale della manodopera) tuttora penalizzati da un permesso di residenza (hùkŏu) rurale che li lascia senza diritti nelle metropoli dove lavorano.
Come sempre nella storia della Repubblica popolare cinese, i grandi annunci dei leader dovranno fare i conti con la realtà estremamente complessa e le stridenti contraddizioni del paese reale. Parafrasando Mao Zedong, la rivoluzione dell’economia cinese non è un pranzo di gala.
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