Il profluvio di commenti sui quotidiani italiani a favore di Amazon di questi giorni è un mix di chiacchiera da bar e argomentazioni strumentali, che arrivano persino a confondere i ruoli delle authority di regolamentazione, riprendendo una tesi che la stessa Amazon ha portato a sua difesa.

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L’autorità antitrust ha comminato una sanzione da un miliardo e 128 milioni dopo una istruttoria destinata a individuare l’abuso di posizione dominante della società di Jeff Bezos nel settore della logistica. Si tratta, per chi conosce la dottrina antitrust e le ultime istruttorie portate avanti dall’Unione europea, di un caso di scuola di abuso.

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In questo caso l’Antitrust ha individuato la prevaricazione nel fatto che Amazon ha legato l’utilizzo del suo servizio di stoccaggio, spedizione e servizio clienti, alla possibilità di essere più visibili sul proprio marketplace, di accedere ai servizi di consegna Prime e di essere segnalato nella BuyBox.

Quindi i vantaggi offerti al retailer sul portale, scrive l’Antitrust nell’istruttoria di 250 pagine, hanno permesso alla società di aggiudicarsi quote sul mercato della logistica. A questo si aggiunge che se un rivenditore si affida alla logistica di Amazon, stoccaggio compreso, e vuole però vendere anche su altri portali, Amazon gli permette di farlo solo a prezzi non competitivi.

Lock-in

Si tratta in sostanza di comportamenti che mirano a chiudere il cliente nell’ecosistema Amazon, una strategia chiamata comunemente lock-in tipica dei grandi oligopoli del digitale, in cui comportamenti anti concorrenziali in un segmento della filiera sono utilizzati come leva per espandere ancora di più la loro natura di operatori integrati capaci di dominare per intero il comparto.

Il rapporto della sottocommissione antitrust della Camera americana pubblicato a ottobre 2020, solo per fare un esempio, concludeva che «Google ha mantenuto la sua posizione dominante sfavorendo i concorrenti e favorendo i propri contenuti nei risultati di ricerca». E attraverso il collegamento dei suoi servizi – per esempio la ricerca e la pubblicità, «Google funziona sempre più come un ecosistema di monopoli interconnessi».

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In sostanza tutta la disciplina antitrust negli ultimi anni ha dovuto confrontarsi con questo tipo di abusi, altro che regole vecchie e cambiamento della natura delle authority.

Quello che è cambiato, da anni, è il tipo di operatori con cui le authority si confrontano. Tanto che finalmente i regolatori, a livello americano e a livello europeo, stanno cercando di mettere a punto nuove norme per limitare questi fenomeni. Non a caso tutta la nuova legislazione Ue sui servizi digitali insiste e martella sul concetto di interoperabilità.

Il dibattito italiano sembra al riparo da ogni tipo di approfondimento sul tema, ma si spinge anche oltre. Amazon che ha ovviamente tutto il diritto di fare ricorso contro la sanzione, ha citato in sua difesa l’istruttoria realizzata dall’Agcom, l’autorità garante delle comunicazioni, che nel luglio di quest’anno ha certificato la sua posizione dominante nella consegna dei pacchi.

Questo perché l’Agcom ha competenza sul mercato dei servizi postali ed essendo una autorità con potere regolatorio – può varare norme per normare alcuni mercati come le telecomunicazioni – deve innanzitutto verificare chi sono gli operatori dominanti e eventualmente prevedere leggi che ne regolino i comportamenti. È lo stesso principio per cui per esempio l’Unione europea ha deciso con il Digital Market Act di individuare i gatekeeper, i servizi digitali che controllano i mercati.

Agcom, per intenderci, valuta indicatori come quote di mercato, controllo di infrastrutture difficilmente duplicabili, presenza di barriere all’ingresso, economie di scala, contropotere di acquisto, integrazione verticale, rete di distribuzione: fa insomma una fotografia dei mercati per capire se servono correttivi. Mentre è l’Antitrust che va a indagare se alcune posizioni dominanti nascondono abusi.

L’autorità ha concluso che Amazon ha una posizione dominante in un particolare ramo dei servizi di consegna, cioè il mercato delle consegne e-commerce deferred.

Il commercio elettronico «rappresenta poco meno del 50 per cento del totale del mercato dei servizi di consegna dei pacchi in volumi e il 4 per cento in ricavi». Le consegne deferred (cioè postposte, che arrivano a destinazione dopo qualche giorno, ndr) «rappresentano, a loro volta, il 16 per cento del totale delle consegne e-commerce in volumi e il 10 per cento in ricavi». Di questo mercato limitato, Amazon ha una quota del 59 per cento ed è in posizione dominante. Ma Agcom sottolinea anche che «grazie all’integrazione verticale Amazon è in grado di trasferire il potere di mercato che detiene nel mercato a monte delle piattaforme di vendita online sul mercato delle consegne e di esercitare un notevole contropotere di acquisto nei confronti dei concorrenti».

Qui il rapporto Agcom si ferma e fa riferimento all’istruttoria aperta dall’Antitrust che va ad indagare gli effetti di quella integrazione verticale. E il risultato di quella integrazione è che nel 2019 sui primi cento venditori che si appoggiavano ad Amazon logistica, 61 rientravano anche tra i primi cento top seller sulla piattaforma, rispetto ai soli 36 nel 2014.

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Ora che Amazon possa cercare di utilizzare le analisi Agcom sulle quote di mercato contro quelle Antitrust è, dal suo punto di vista, comprensibile. Deve contrastare una delle sanzioni più alte ricevute in un paese europeo. Che queste argomentazioni vengano riprese da chi osserva il fenomeno in posizione neutrale, invece, indica che si è capito ben poco dei ruoli in campo.

 

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