Le ferrovie dello Stato sono un’impresa interamente pubblica, pesantemente sussidiata, e monopolistica in diversi servizi. Una privatizzazione parziale garantirebbe solo una rendita pagata a privati con i soldi dei contribuenti. Meglio cedere servizi che già operano con successo nel mercato, giovando così anche agli utenti
Il nuovo amministratore delegato del gruppo Ferrovie dello Stato (Fsi), Stefano Donnarumma, non è solo un tecnico con esperienze specifiche nel settore della mobilità, è anche uomo di impresa, che ha coperto ruoli di management di realtà industriali di prima grandezza, pubbliche e private.
Ma Fsi è un’impresa del tutto anomala: infatti non solo è interamente pubblica, ha anche una componente rilevante (la rete ferroviaria) che è un’infrastruttura, cioè un “monopolio naturale”, e gode di posizioni di sostanziale monopolio in diversi servizi.
Tuttavia la sua peculiarità fondamentale è che per alcuni di questi servizi, e per quasi il 100 per cento degli investimenti, vive di trasferimenti pubblici, che superano i 10 miliardi all’anno, per un totale cumulato, negli ultimi 30 anni, dell’ordine del 20 per cento del debito pubblico italiano.
Ora, come per ogni società di capitali, e quindi anche per Fsi, il mandato formale è di fare profitti, e in effetti Fsi li ha sempre fatti (escluso un anno). Gli obiettivi sociali dell’impresa si esprimono nei trasferimenti che abbiamo citato, che servono a tenere le tariffe molto più basse dei costi di produzione, con benefici ambientali e di sostegno a servizi altrimenti non redditizi.
Sono obiettivi politici e sussidi immutati nella sostanza da decenni, qualsiasi fosse il colore partitico dei governi, e qualsiasi fosse la situazione finanziaria del paese. Ma forse non tutto ciò che è politicamente deciso è anche un bene per la collettività, e debba continuare immutato.
Che cosa privatizzare
Vi sono per esempio voci di privatizzazione parziale di imprese pubbliche, mantenendone la maggioranza.
Nel caso di Fsi, è verosimile che i privati subentranti chiedano ampie garanzie sulla profittabilità del loro investimento, cioè che i sussidi pubblici non diminuiscano, e che la concorrenza non aumenti. Di fatto, rinforzerebbero lo “status quo”, rendendo lo Stato garante di profitti privati: uno scambio tra soldi subito e rendite future per i nuovi entranti (un profitto garantito è una rendita).
Sarebbe meglio, per fare cassa, cedere segmenti di Fsi per i quali già esista un mercato che funziona, cioè i servizi merci e quelli di Alta Velocità. L’aumentata competizione gioverebbe anche agli utenti di questi servizi, come ampiamente verificato dall’ingresso di un concorrente nell’Alta Velocità.
Obiettivi misurabili
Un secondo aspetto riguarda la logica economica dei trasferimenti pubblici: oggi non sembra essere difendibile. Non sarebbe più razionale e trasparente porre obiettivi espliciti e misurabili di tipo ambientale e sociale, compensando poi l’impresa Fsi in funzione di quanto realmente li raggiunga?
Oggi misurare i risultati ambientali per euro speso sarebbe agevolmente possibile, e questo vale anche per i benefici per i diversi gruppi sociali dei servizi sussidiati, o per la riduzione di costi della congestione stradale.
L’arbitrarietà sostanziale dei trasferimenti attuali invece induce a ritenere che l’obiettivo reale sia più il garantire i bilanci aziendali che il raggiungimento di obiettivi sociali misurabili. Una migliore finalizzazione dei sussidi consentirebbe anche ai decisori politici, e quindi alla collettività, di confrontare l’efficienza di politiche alternative. Considerazioni simili valgono anche per gli investimenti: non sarebbe opportuno che non fossero le ferrovie stesse a valutarne i benefici socioeconomici, come accade oggi? Questo le pone in palese conflitto di interessi, essendo destinatarie dei fondi.
Conti trasparenti
Infine, un problema di trasparenza: è difendibile denominare “profitti” risultati che dipendono da trasferimenti dello Stato, che sono di un ordine di grandezza maggiori? Non sarebbe più corretto almeno affiancare ai profitti i trasferimenti pubblici annuali corrispondenti, cioè l’onere per i contribuenti?
Ora, mantenere lo “status quo” è certo l’opzione più ovvia per l’impresa: ridotta concorrenza, impossibilità “politica” di fallire, rapporti tranquilli con i fornitori e con i sindacati, un flusso rilevante di investimenti, non soggetti neppure ad ammortamenti né a rendicontazione ex-post dei risultati.
I consigli, a cui si è accennato a titolo di esempio, sono tutti indirizzati a rendere la missione aziendale più impegnativa di quella attuale. Toccherebbe alla proprietà, cioè alla politica, modificare in questo senso la realtà attuale, immutata da troppi anni.
Ma forse il nuovo management, portatore di cultura industriale, potrebbe giocare un ruolo favorevole all’innovazione, anche a rischio di farsi la vita più difficile. Sarebbe un’assoluta novità, e anche la collettività se ne gioverebbe.
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