- Durante i mesi della pandemia, l’Italia ha cercato di limitare l’effetto recessivo attraverso i provvedimenti del decreto Cura Italia. Qual è stato l’impatto di queste misure sul mercato del lavoro?
- L’analisi si è focalizzata sulla variazione settimanale nel numero di assunzioni, licenziamenti, cessazioni e dimissioni nei primi tre mesi del 2020 rispetto alla media degli anni 2017-2019
- Nonostante le misure introdotte, la recessione seguita alla pandemia ha colpito comunque le fasce più deboli del mercato del lavoro. Conoscere cosa è successo può aiutare nel disegno della risposta al virus in questa seconda fase
L’evoluzione della pandemia in Italia ha rimesso in primo piano la possibilità di chiusure più o meno estese dell’attività economica. La previsione dell’impatto che un lockdown può avere sul mercato del lavoro può giovarsi dei dati accumulati negli scorsi mesi, in cui l’Italia ha cercato di limitare il più possibile l’effetto recessivo del Covid–19, vietando i licenziamenti e rendendo più semplice l’accesso alla cassa integrazione, attraverso il decreto Cura Italia, emanato il 17 marzo 2020 e valido retroattivamente (per i licenziamenti e l’accesso alla cig) a partire dal 23 febbraio.
Che impatto hanno avuto il lockdown e questi provvedimenti? Per rispondere abbiamo usato un campione delle comunicazioni obbligatorie fornito dal ministero del Lavoro, che raccoglie le informazioni sui contratti attivi al primo trimestre del 2020.
Assunzioni e licenziamenti
Abbiamo analizzato la variazione settimanale nel numero di assunzioni, licenziamenti, cessazioni e dimissioni nei primi tre mesi del 2020 rispetto alla media degli anni 2017-2019, per valutare nell’immediatezza dello scoppio della pandemia come si è mosso il mercato del lavoro.
Le assunzioni, nelle prime otto settimane del 2020 erano leggermente superiori al livello dei tre anni precedenti, ma crollano nelle settimane dalla decima alla tredicesima fino a raggiungere valori intorno al -60 per cento. Per quanto riguarda i licenziamenti, nei primi due mesi dell’anno non ci sono scostamenti significativi rispetto al passato. Dopo le prime chiusure, i licenziamenti aumentano del 70 per cento nella decima settimana e del 34 per cento nell’undicesima. Dalla dodicesima settimana, il decreto Cura Italia diminuisce il ricorso al licenziamento. Sembra dunque che le imprese, prima delle misure del decreto, stessero licenziando per aggiustare il costo del lavoro.
Non è da escludere che l’irrigidimento del mercato del lavoro conseguente al decreto abbia contribuito alla caduta delle assunzioni, anche se è prematuro fare considerazioni di tipo causa-effetto.
Cessazioni dei contratti a tempo determinato e dimissioni sono gli altri due canali di aggiustamento. Le prime mostrano un trend decrescente durante la prima fase, probabilmente dovuto a un calo del turnover dei dipendenti a termine e al rinvio della data di cessazione dei contratti che sarebbero scaduti durante il lockdown. Le dimissioni mostrano un andamento negativo simile tra l’undicesima e la tredicesima settimana, ma sono caratterizzate da un picco del +40 per cento nella settimana nove, che coincide con l’istituzione delle zone rosse nel nord Italia e la chiusura delle scuole.
In assenza di alternative per la cura dei bambini, alcuni genitori potrebbero aver deciso di lasciare il lavoro. L’incremento delle dimissioni volontarie dopo lo scoppio della pandemia riguarda per oltre la metà donne, che rappresentavano un terzo della variazione totale pre-pandemia. L’incertezza può anche aver indotto i lavoratori che erano in condizioni di farlo ad anticipare il pensionamento: sono i lavoratori più anziani a dare le dimissioni in percentuali maggiori.
Quali lavoratori hanno avuto maggiori probabilità di perdere il posto di lavoro? Sono le categorie più fragili del mercato del lavoro – che ancora pagavano le conseguenze delle passate recessioni – a risultare più penalizzate. Hanno infatti una maggiore probabilità di perdere il posto i lavoratori meno istruiti, i lavoratori del sud, quelli con contratto a tempo determinato o part-time e i giovani. È particolarmente evidente la differenza tra i lavoratori a termine e quelli a tempo indeterminato: se per i primi la probabilità di perdere il lavoro è quasi l’11 per cento, per i secondi è intorno al 2,4 per cento, una differenza che potrebbe lasciare cicatrici profonde.
Le nostre analisi non sembrano suggerire differenze significative tra uomini e donne, ma le donne potrebbero aver modificato le ore lavorate in modo diverso dagli uomini, invece che la loro partecipazione; la loro maggiore presenza nel settore pubblico potrebbe averle esposte meno ai rischi di perdere il lavoro; la possibilità di svolgere in remoto le attività può aver ridotto l’impatto delle chiusure.
Nonostante il governo abbia introdotto misure volte a proteggere i lavoratori, la recessione seguita alla pandemia ha comunque colpito le fasce più deboli del mercato del lavoro. Un’evidenza comune anche ad altri paesi europei, come dimostrato da studi su Regno Unito, Stati Uniti e Germania, che non hanno sperimentato un blocco dei licenziamenti. Conoscere cosa è successo nella prima fase può aiutare nel disegno della risposta al virus in questa seconda.
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