Quando c’è il coraggio della società civile che muove esposti penali, quello delle procure che indagano non temendo i pesci grandi e la cooperazione internazionale penale funziona – in questo caso la Nigeria ha dato man forte alla procura di Milano, così come le autorità svizzere e quelle americane – allora è possibile portare a processo anche casi iconici ed emblematici dell’industria petrolifera e del malaffare
- L’affare OPL245 ha visto un ruolo centrale di quello che la procura di Milano ha definito l’”asse delle spie”: due ex-MI6 inglesi pagati da Shell, il capo dell’intelligence nigeriana, un ex ambasciatore russo vicino a Shell e un uomo dei servizi italiani.
- Nonostante la lotta alla corruzione sia sulla bocca di tutti i top manager, dall’affare OPL245 emerge che gli standard e le procedure interne anti-corruzione delle società sono regolarmente interpretate a discrezione.
- Eni e Shell sapevano bene che personaggio fosse Dan Etete, l’ex ministro del petrolio che ai tempi della dittatura di Abacha nel lontano 1998 si era di fatto auto-intestata la licenza OPL245 tramite la società schermo Malabu Oil and Gas. Etete è stato condannato nel 2007 in Francia per riciclaggio.
È attesa la sentenza del processo al tribunale di Milano che vede imputati Eni, Shell, diversi loro top manager, intermediari di spicco e un ex ministro del Petrolio della Nigeria per la presunta corruzione internazionale nell’acquisizione dell'immenso blocco petrolifero OPL245, sito nelle acque antistanti la Nigeria. Alcuni osservatori l’hanno definito il “processo del secolo”, non solo per la magnitudine della presunta tangente pagata – più di un miliardo di dollari – ma per il coinvolgimento della più grande multinazionale europea (Shell) e di quella italiana (Eni).
Una prima riflessione da ricavare da questa saga giudiziaria internazionale è che quando c’è il coraggio della società civile che muove esposti penali, quello delle procure che indagano non temendo i pesci grandi e la cooperazione internazionale penale funziona – in questo caso la Nigeria ha dato man forte alla procura di Milano, così come le autorità svizzere e quelle americane – allora è possibile portare a processo anche casi iconici ed emblematici dell’industria petrolifera e del malaffare, quali la presunta corruzione dell’OPL245.
I punti salienti
Certo, è giusto che la giustizia faccia il suo corso in Italia come altrove. Ma possiamo già oggi trarre delle lezioni dallo spaccato inquietante che è emerso dall’istruttoria dibattimentale svoltasi in Tribunale a Milano riguardo l’operato di Eni e Shell in paesi complessi come la Nigeria. Sarebbe limitante leggere quella dell’OPL245 come una semplice ipotesi di corruzione internazionale. La storia mostra come esista un vero problema di controllo democratico sull’operato dei giganti energetici e di infiltrazione profonda dei loro interessi negli apparati più profondi degli Stati. Una realtà che va oltre la stessa immaginazione di chi ha a lungo criticato l’operato delle multinazionali. Tra le tante, ci sono tre punti salienti che ci colpiscono profondamente in questa storia e sono i seguenti:
La capacità di queste società di influenzare i processi democratici in paesi come la Nigeria, ma anche da noi. L’affare OPL245 ha visto un ruolo centrale di quello che la procura di Milano ha definito l’”asse delle spie”: due ex-MI6 inglesi pagati da Shell, il capo dell’intelligence nigeriana, un ex ambasciatore russo vicino a Shell e un uomo dei servizi italiani, che nel corso dell’indagine è diventato anche il grande accusatore di Descalzi & Co.
Soggetti che senza problemi scrivevano nelle loro e-mail della consapevolezza che i soldi dell’OPL245 erano attesi dai politici nigeriani, della capacità di produrre i testi negoziali anche per il governo nigeriano aggirando le agenzie tecniche preposte, della regolare intelligence su ognuno degli attori coinvolti per orientarli al meglio. Un vero e proprio stato parallelo, con una dimensione transnazionale, capace di influenzare ogni processo e decisione. Secondo quanto riferito dai testi sentiti in tribunale a Milano è normale che questo accada e che il connubio società-stati porti avanti in ogni modo gli interessi comuni.
Chiediamoci allora perché la questione OPL245 nella sua gravità non è stata presente nell’opinione pubblica e perché questo stato parallelo riesca a spostare il dibattito e condizionare i media e l’opinione pubblica così tanto in Italia come in altri paesi.
2. Nonostante la lotta alla corruzione sia sulla bocca di tutti i top manager, dall’affare OPL245 emerge che gli standard e le procedure interne anti-corruzione delle società sono regolarmente interpretate a discrezione. Le e-mail interne trapelate e altri documenti rivelano una storia di ripetuti fallimenti nell'affrontare le "bandiere rosse" (gli avvertimenti) sulla corruzione.
In questo modo era normale che l’ad e il numero due di Eni si intrattenessero a telefono regolarmente con un pluri-pregiudicato – quale Luigi Bisignani – riguardo alla gestione del negoziato sull’OPL245. Le strutture interne dell’anti-corruzione di Eni, al contrario di quelle di Shell, fino all’ultimo giorno hanno ricordato ai loro manager che mancava documentazione rilevante della Malabu, ma poi alla fine hanno dato il loro assenso all’accordo. Anche quando questa procedura sarà considerata legale dai vari tribunali, è giusto chiedersi come si può fermare la corruzione se poi queste sono le pratiche concrete per prevenirla in Eni come in Shell.
3. La negazione dell'evidenza, sempre e comunque. Eni e Shell sapevano bene che personaggio fosse Dan Etete, l’ex ministro del petrolio che ai tempi della dittatura di Abacha nel lontano 1998 si era di fatto auto-intestata la licenza OPL245 tramite la società schermo Malabu Oil and Gas. Etete è stato condannato nel 2007 in Francia per riciclaggio collegato alla corruzione per l’affare Bonny Island, sempre in Nigeria. Nonostante tutto le due società hanno strenuamente continuato a sostenere che prima non sapevamo che Etete fosse davvero dietro la Malabu – anche se rapporti indipendenti del 2007 e 2010 chiaramente segnalavano la cosa a Eni – e poi, una volta ammesso, si sono trincerate dietro l’argomentazione che l’accordo finale siglato nel 2011 prevedeva solo il pagamento al governo nigeriano,e non alla Malabu di Etete. Quello che The Economist ha definito «sesso sicuro in Nigeria», fatto con il “preservativo” fornito dallo schermo dai vertici del governo nigeriano, che poi avrebbero intascato laute mazzette.
In conclusione, colpevoli o no, del miliardo e cento milioni di dollari pagati da Eni e Shell nulla è finito al governo e al popolo nigeriani. Se la Nigeria avrà successo con le sue azioni legali di risarcimento del danno contro le società, sarà importante monitorare insieme alla società civile indipendente del paese che i soldi vengano spesi al meglio. Ma nel frattempo possiamo tutti chiederci se le prove emerse dal processo a Milano rivelano aziende di cui in ultima istanza ci si può fidare. Questi giganti possono essere riformati e controllati – a prescindere dal fatto che già oggi il governo italiano controlla il 30 per cento di Eni e ne nomina i vertici? O il loro uso di porte girevoli, l'infiltrazione negli apparati degli stati e il coinvolgimento di ex-spie è parte integrante del loro modo di operare?
Probabilmente Shell ed Eni sono irriformabili e il loro modello di business, scritto nel loro Dna e nella loro storia, è incompatibile con la democrazia. Perciò non dovrebbero avere posto nella transizione giusta e democratica che ci dovrebbe portare a una società ecologica.
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