La pandemia, l’invasione russa dell’Ucraina, il ritorno al nazionalismo e all’espansionismo della Cina e, infine, la recrudescenza delle tensioni in Medio Oriente hanno stravolto l’ordine mondiale. Il costo economico dei rischi geopolitici sarà enorme e ricadrà soprattutto sull’Europa, di cui l’Italia è nuovamente l’anello debole
Prima del Covid, per 20 anni l’ordine mondiale si è basato sull’integrazione delle economie e ha garantito un lungo periodo di crescita e di stabilità dei prezzi. Naturalmente, non tutti ne hanno beneficiato: l’ordine ha creato disuguaglianze e accentuato le differenze tra paesi ma, complessivamente ha portato una crescita del reddito reale procapite nel mondo, mai vista negli ultimi 100 anni.
La pandemia, l’invasione russa dell’Ucraina, il ritorno al nazionalismo e all’espansionismo della Cina e, infine, la recrudescenza delle tensioni in Medio Oriente lo hanno minato e stravolto. L’attenzione è tutta concentrata sugli scenari politici, ma il costo economico dei rischi geopolitici sarà enorme e ricadrà soprattutto sull’Europa, di cui l’Italia è nuovamente l’anello debole.
Usa contro Cina
Cina ed Estremo Oriente erano diventati la manifattura del mondo, anche grazie all’importazione di materie prime ed energia a basso costo; ma al tempo stesso sono anche diventati un vasto mercato per l’Occidente, per via di grandi investimenti in infrastrutture e dei consumi di un enorme ceto medio e di una ricca imprenditoria locale.
L’integrazione finanziaria ha poi permesso alle imprese cinesi di usare Hong Kong e il mercato dei capitali americano per creare i loro colossi della tecnologia. Ma la svolta nazionalistica ed espansionistica della Cina, con le mire su Taiwan, il controllo delle infrastrutture nel mondo con la Via della Seta e una crescente concorrenza all’Occidente in tanti settori, soprattutto in quelli fondamentali per la transizione ambientale, costituiscono oggi un rischio geopolitico.
Gli Stati Uniti hanno reagito bloccando l’esportazione di tecnologia, specie con utilizzi militari; rendendo più difficile l’accesso delle imprese cinesi al proprio mercato dei capitali; e finanziando con crediti d’imposta una produzione locale tesa ad affrancarsi dalla Cina per la transizione ambientale.
Con un costo elevato per entrambi i paesi però: gli Stati Uniti si troveranno il gigantesco onere del debito pubblico necessario a finanziare il costo dei crediti di imposta e molti beni americani vengono banditi dal mercato cinese in rappresaglia; mentre la Cina vede ridursi il suo maggior mercato per le esportazioni e l’accesso al mercato dei capitali più liquido.
I rischi
L’Europa si trova in mezzo al guado perché la Cina da grande mercato per le esportazioni è diventata un temibile concorrente; perché deve scegliere tra una transizione ambientale a basso costo con i beni importati dalla Cina o spendere di più; e perché anche le imprese europee investono negli Usa, per beneficiare dei crediti fiscali che la Commissione europea non vuole e i singoli paesi non possono concedere.
Gli ultimi tre anni hanno reso evidente come i rischi geopolitici possano metter in ginocchio logistica e infrastrutture (sabotaggi di gasdotti, chiusura di porti, rotte a rischio), imponendo di aumentare le scorte e avvicinare i siti produttivi, ma incidendo così su margini e costi di produzione.
In campo energetico l’Europa ha beneficiato dei bassi prezzi dovuti alla riduzione della domanda globale grazie allo shale oil degli Stati Uniti, passati da importatori a esploratori, e delle importazioni a basso costo del gas russo.
La guerra in Ucraina e le tensioni Medio Oriente ha stravolto questo equilibrio. Lng non è la soluzione perché il suo prezzo dipende dalla domanda asiatica, oggi debole per la bassa crescita cinese; e sostituire la Russia con altri paesi del Medio Oriente non ha ridotto i rischi geopolitici visti i tragici eventi nell’area. Inoltre, il prezzo dell’elettricità in Europa è determinato dal costo delle centrali a gas perché, nei momenti di picco, sono quelle in grado di eguagliare l’offerta alla domanda.
Così un'impennata del prezzo del gas si traduce automaticamente in quella dell’elettricità. Per questo l’Europa vuole varare una riforma basata sui contract for difference, ovvero lo Stato sussidia i produttori di elettricità quando il prezzo cala sotto un certo livello, ma incassa l’eccesso sopra un certo livello: una sorta di assicurazione pubblica che stabilizza le oscillazioni di prezzo per favorire i nuovi investimenti, specie in rinnovabili, oltre a generare risorse pubbliche per aiutare i cittadini meno abbienti nelle crisi energetiche. Ma che è una soluzione costosa.
Il costo economico
La somma dei rischi geopolitici avrà dunque un costo economico enorme, amplificato dalle maggiori spese militari che questi rischi comportano, e dall’inflazione, non più calmierata dal basso costo delle importazioni cinesi e asiatiche.
Schiacciata tra Stati Uniti e Cina, l’Europa dovrebbe essere più unita. Invece manca una rete elettrica integrata; il mercato dei capitali e delle banche è frammentato, come lo è l’industria della difesa; mancano un budget e una politica unitaria per la transizione ambientale; e non c’è una chiara strategia economica su come affrontare l’espansione cinese e gli incentivi americani. Le uniche cose che invece abbondano da noi sono i nazionalismi.
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