Al ministero delle Imprese sono 32 i tavoli di crisi attivi, con 60mila posti di lavoro a rischio. I numeri della Cig aumentano e il sindacato chiede l’intervento di Meloni. Quali sono i settori più colpiti e che ne è delle riconversioni? Le crisi rientrate con incertezza, da Wartsila all’ex Blutec, e le situazioni ancora irrisolte. La lotta dal basso dell’ex Gkn, con l’alleanza di operai e ambientalisti
In Italia sono oltre 60mila i posti di lavoro a rischio, il doppio se si considerano i settori in difficoltà per le transizioni produttive. È l’allarme lanciato dalla Cgil nell’ultimo aggiornamento sulle aziende per cui sono aperti tavoli di crisi al ministero delle Imprese. Attualmente sono 32 i tavoli attivi, gestiti dalla Struttura per le crisi di impresa. Ma il Mimit sta monitorando anche 23 situazioni in cui l’azienda, pur non versando in uno stato di crisi, opera in settori fragili.
«Ad agosto ci sono altri 2.547 lavoratori coinvolti in crisi industriali. Si sommano ai 58.026 che avevamo denunciato a gennaio», ha detto Pino Gesmundo, segretario confederale della Cgil con delega all’industria. A questi numeri vanno poi aggiunte le realtà sotto i 250 operai, che vengono gestite direttamente dalle regioni: solo in Puglia e Veneto ci sono altri 32mila lavoratori a rischio.
«Gli incontri a palazzo Piacentini non forniscono risposte concrete. Abbiamo bisogno di affrontare unitariamente questi temi: perciò chiediamo l’attivazione di un tavolo unico alla presidenza del Consiglio – ha detto il segretario generale della Cgil Maurizio Landini – Ci sono risposte che non può dare il ministro Urso senza sentire Giorgetti, o Pichetto Fratin senza sentire Urso».
Sempre più Cig
I dati mostrano che le ore autorizzate di cassa integrazione sono cresciute nell’ultimo anno. L’Osservatorio Cig dell’Inps rileva che a giugno sono state 35,3 milioni contro le 29,4 milioni del 2023. Le ore di cassa ordinaria sono arrivate a 25 milioni (erano 18,5 milioni) e la cassa straordinaria – che viene chiesta per ristrutturazione, riorganizzazione e riconversione aziendale – ha registrato un balzo a 9 milioni e mezzo di ore. Il trend, insomma, è in peggioramento.
«L’aumento dei tavoli di crisi è dovuto al fatto che anche vertenze locali, che per la loro dimensione non sono di nostra competenza, sono portate ora al dicastero», si è giustificato Adolfo Urso dal Meeting di Cl a Rimini. Secondo il ministro la crescita della cassa integrazione è in qualche misura fisiologica, dato che «accompagna le fasi di riconversione produttiva in settori a più alta competitività».
Negli ambiti più esposti alle transizioni ecologica e digitale ci sono in effetti tante incognite per la tenuta occupazionale, con oltre 120mila posti di lavoro a rischio. Secondo il report del sindacato sono 70mila le unità in difficoltà nel settore automotive e oltre 25mila in quello siderurgico. Disagi si registrano poi per le aziende che operano nelle telecomunicazioni e nella produzione di energia, ma anche nel chimico, nella raffinazione e nel comparto elettrico.
Una crisi risolta
Tra i dossier aperti il sindacato cita Fos Prysmian, che produce fibra ottica di qualità ed è «messa in crisi dall’utilizzo di fibra cinese», e i call center di Almaviva Contact e di Abramo Customer Care, dove a rischiare il posto sono in 800. Ci sono poi altri nomi di imprese entrate nella cronaca quotidiana: la Jsw di Piombino e l’ex Alcoa di Portovesme, ma anche la Lear di Grugliasco e la Speedline di Santa Maria di Sala.
Eppure, negli ultimi tempi, qualche luce si vede all’orizzonte. Merito dei sindacati e della regione Emilia-Romagna è la soluzione che riguarda lo stabilimento Marelli di Crevalcore, in provincia di Bologna. L’8 agosto l’azienda ha siglato l’accordo definitivo per la cessione del ramo bolognese all’azienda Tecnomeccanica. Il nuovo gruppo riassorbirà da subito 152 lavoratori dell’impianto emiliano, mentre per i restanti 67 si procederà all’accordo per il piano di contenimento di marzo.
«La gestione da parte di tutti gli attori, azienda inclusa, è un raro esempio virtuoso. C’è stato un costante confronto al ministero, con il coinvolgimento e il voto delle lavoratrici e dei lavoratori», ha riconosciuto Samuele Lodi, segretario nazionale della Fiom con delega all’automotive. La speranza è che questo modello sia replicato in altri casi. Il pensiero va ad esempio alla sorte dell’Industria Italiana Autobus di San Potito Sannitico, che sarà affrontata al Mimit a inizio settembre.
Successi incerti
C’è un esito positivo anche per i 540 dipendenti dell’ex Blutec (e prima ancora Fiat) di Termini Imerese, nel Palermitano. Il 12 agosto è stato firmato un accordo tra il nuovo investitore Pelligra, i sindacati e la regione. Tra gli operai lasciati a casa 350 saranno formati per essere reimpiegati nel progetto industriale del gruppo, mentre altri 190 beneficeranno dell’isopensione, lo “scivolo” pagato dall’impresa fino al raggiungimento della pensione.
«La Fiom continuerà a lavorare perché la prospettiva industriale di Pelligra sia di lungo periodo e coinvolga ancora più lavoratori», ha detto Lodi. Resta infatti da capire se l’azienda, che fa capo all’imprenditore italo-australiano Ross Pelligra, patron del Catania calcio, rispetterà i tempi della riqualificazione. E che cosa avverrà al termine dei tre anni previsti dall’accordo.
A fine luglio è stata invece siglata l’intesa che apre al trasferimento a Msc, il gruppo dello shipping e della logistica di Gianluigi Aponte, delle attività del sito Wartsila di Bagnoli della Rosandra, alle porte di Trieste. Il rilancio dell’impianto prevede l’avvio della produzione di vagoni ferroviari per il trasporto merci e l’assorbimento di 261 lavoratori in esubero. Obiettivo del piano è arrivare alle mille vetture l’anno e occupare a regime oltre 300 persone.
Da La Perla a Piaggio
Un’altra crisi che dura da anni è quella de La Perla, brand bolognese attivo nell’intimo di lusso. L’impresa è stata portata al fallimento dall’ex proprietario, il fondo anglo-olandese Tennor, e i pezzi che la compongono sono finiti in procedure separate, una britannica e due italiane. Da cinque mesi le lavoratrici usufruiscono della cassa integrazione, ma l’azienda è ferma e non si vedono segnali di ripartenza.
Il ministero sta stringendo su questo caso, dopo che da inizio anno il gruppo è stato dichiarato insolvente dal tribunale di Bologna. Il Mimit ha fissato al 10 settembre il termine dell’intesa per cedere il marchio e lo stabilimento a un imprenditore interessato a riprendere la produzione. In mancanza di tale accordo, a palazzo Piacentini ripartirà un confronto a oltranza per la salvaguardia di circa 300 lavoratrici.
Incerta è anche la situazione dell’impianto Piaggio di Pontedera, in provincia di Pisa. Qui il 23 agosto è scaduto il mese di chiusura deciso per l’estate. Proseguirà invece fino al 6 settembre il fermo di alcune linee dello stabilimento motori e dello stabilimento due ruote. All’annuncio della cassa integrazione, a metà luglio, l’Usb ha proclamato un giorno di sciopero, ma gli altri sindacati si sono sfilati e l’adesione è stata scarsa.
«Abbiamo firmato il contratto di solidarietà che per alcuni mesi ha tenuto a casa i lavoratori. Ma quelle ore di solidarietà servono per attuare un investimento consistente sulle linee di produzione e adeguarle alla nuova normativa europea», ha detto Alessandro Beccastrini, segretario generale della Fim-Cisl Toscana. Il riferimento è alla messa in commercio dei nuovi veicoli Euro 5+, come richiesto dall’Ue, e alla necessità di attrezzare le linee per produrli nel 2025.
Ilva o non Ilva?
La madre di tutte le vertenze è però quella dell’ex Ilva: la crisi dell’acciaieria di Taranto prosegue da oltre un decennio, con quasi la metà dei lavoratori in cassa integrazione. A fine luglio Urso ha firmato il bando per la manifestazione di interesse per l’acquisizione dei beni e delle attività aziendali in amministrazione straordinaria. Entro il 20 settembre i soggetti interessati dovranno spedire i documenti richiesti, primo passo per rilevare gli impianti di Acciaierie d’Italia.
Nelle settimane seguenti i commissari dovranno decidere chi ammettere alla procedura di gara. Ma le incognite non sono finite, dato che il piano di vendita rischia di spezzettare il gruppo. Dei sei aspiranti compratori, infatti, nessuno è intenzionato a mantenere unita l’azienda: Marcegaglia punta ai tubifici di Genova e Salerno, mentre gli ucraini di Metinvest e due gruppi indiani sono interessati alla produzione di semilavorati. Ed è improbabile che arrivi un’offerta dalla canadese Stelco.
Un esperimento politico
Sono invece passati tre anni da quando gli operai dell’ex fabbrica Gkn di Campi Bisenzio, vicino a Firenze, hanno iniziato una lotta per salvare il loro posto di lavoro, dopo che il fondo inglese Melrose, proprietario dello stabilimento che produceva componenti per l’industria automobilistica, ne ha deciso la chiusura in modo unilaterale. I dipendenti furono avvertiti con una email nel luglio del 2021.
In questi anni, le donne e gli uomini dell’ex Gkn sono rimasti uniti e hanno dato vita a una rete di solidarietà che ha coinvolto lavoratori di altre aziende, abitanti del luogo, studenti e ricercatori. Oltre a esponenti del mondo dello spettacolo e della cultura: tra i sostenitori della campagna, ad esempio, ci sono lo storico Alessandro Barbero e gli attori Valerio Mastandrea e Giovanni Storti.
È così che sono nate la Società operaia di mutuo soccorso “Insorgiamo” e la cooperativa Gff, con l’obiettivo di riconvertire la produzione della fabbrica occupata dai semiassi per auto di lusso alle cargo bike e ai pannelli fotovoltaici. La mobilitazione dei lavoratori ha così mostrato quale potrebbe essere il contributo dal basso a una reindustrializzazione in chiave verde.
«L’unione tra gli operai e il movimento Fridays for Future ha trasformato la fabbrica in un laboratorio di alleanze nuove nel campo della sinistra tra mondo del lavoro ed ecologia. Ai movimenti ambientalisti, il collettivo di fabbrica ha fornito un nuovo radicamento sociale. Al collettivo, i Fridays hanno dato un orizzonte che va oltre Campi Bisenzio», ha scritto Ferdinando Cotugno su Domani.
Crisi senza fine
Da allora ci sono state fasi di euforia e di incertezza. I due governi che hanno avuto in mano la vertenza (Draghi e Meloni) non hanno condiviso questo progetto né la volontà di andare oltre la semplice dismissione. E sono falliti anche i piani del nuovo proprietario, Francesco Borgomeo: la produzione di Qf non è ripartita e lo sviluppo industriale è rimasto vago.
Qualcosa si è mosso a livello locale, con l’approdo al Consiglio regionale della Toscana di una proposta di legge sui consorzi di sviluppo industriale, e con il varo di un contributo di 3mila euro ai lavoratori di aziende in crisi. Ma la via maestra, a questo punto, è quella del commissariamento, che il presidente Eugenio Giani considera «l’unica misura che consentirebbe di superare lo stallo e far cessare il mancato rispetto della legge».
I 140 dipendenti rimasti in forza a Qf, infatti, da gennaio sono senza stipendio e senza cassa integrazione. Il tribunale di Firenze ha ordinato l’applicazione del decreto Orlando del 2021, utile ad attivare l’unico ammortizzatore disponibile. Ma per ora Borgomeo si è reso inadempiente. L’esperimento di politica industriale dal basso non è stato vano e lascerà i suoi frutti, ma che ne sarà degli operai e dell’impianto è difficile da prevedere.
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