- Le polemiche sul reddito di cittadinanza di questi giorni hanno avuto almeno il merito, assieme alla fiammata dei prezzi, di riportare al centro dell’attenzione il tema della stagnazione dei redditi e della ormai cronica deficienza di produttività del nostro paese.
- Le ragioni per cui l’Italia è il “grande malato d’Europa” sono da trovare nell’incapacità del sistema, formidabile macchina da innovazione fino agli anni Settanta, di evolvere per far fronte a globalizzazione, liberalizzazione finanziaria e mutata natura del progresso tecnico.
- Comprimere i salari per recuperare la competitività è una strategia inefficace e controproducente. Quello che occorre è recuperare i tempi lunghi della programmazione, nella gestione d’impresa come nelle politiche pubbliche.
Le sterili polemiche sul reddito di cittadinanza di questi giorni hanno avuto almeno il merito, assieme alla fiammata dei prezzi, di riportare al centro dell’attenzione il tema della stagnazione dei redditi e della ormai cronica deficienza di produttività del nostro paese.
Ancora una volta, il dibattito pubblico italiano si trova ostaggio di opposti estremismi; eppure, un minimo di conoscenza della storia economica è sufficiente per capire che né l’euro e l’austerità da un lato, né mercati del lavoro inefficienti ed eccessivo costo del lavoro dall’altro, possono spiegare la parabola italiana da modello di sviluppo originale ed efficiente al sistema odierno incapace di produrre innovazione e crescita. Cerchiamo allora di ripercorrere questa parabola.
Il miracolo italiano
La varietà italiana del capitalismo del secondo dopoguerra è incentrata sulla coesistenza di un fitto tessuto di piccole e medie imprese con poche grandi imprese, pubbliche e private, attive nell’industria pesante e in altri settori strategici. Le piccole imprese, organizzate in distretti industriali che consentono di approfittare di economie di scala esterne all’impresa, beneficiano della felice combinazione di fattori diversi: dagli stretti legami tra produttori di beni finali e produttori di macchine utensili, a rapporti di lavoro stabili e a un efficiente sistema di accumulazione di conoscenze specifiche alle singole imprese (l’innovazione che gli economisti chiamano “di processo”) che non necessita di una vera e propria attività di ricerca e sviluppo. Infine, il controllo familiare del capitale e le partecipazioni incrociate creano forti barriere all’ingresso, ma anche stabilità nella gestione e nel finanziamento dell’attività.
Questa rete di piccole imprese connesse tra loro si affianca a poche grandi aziende che operano in settori strategici (chimica, acciaio, aeronautica) in cui i rendimenti crescenti di scala sono fondamentali per generare innovazione. Anche queste sono nelle mani di blocchi stabili di azionisti, quindi protette da acquisizioni ostili.
La stabilità dell’azionariato e le partecipazioni pubbliche costituiscono un capitale “paziente” capace di quegli investimenti a lungo termine necessari per favorire l’innovazione e il progresso tecnico, che contribuisce all’eccellenza italiana nel manifatturiero e al miracolo italiano.
Inadatti alla globalizzazione
Il modello entra in crisi a partire dalla fine degli anni Settanta, vittima della globalizzazione, della liberalizzazione finanziaria e della mutata natura del progresso tecnico. Ricerca e sviluppo necessari per le nuove tecnologie e per sviluppare nuovi prodotti richiedono dimensioni d’impresa elevate.
La prossimità territoriale delle imprese organizzate in distretti diventa un handicap quando la globalizzazione rende necessaria l’esternalizzazione delle attività e l’allungamento delle catene del valore. Le piccole imprese reagiscono quasi sempre trincerandosi in settori a basso valore aggiunto dove l’innovazione di processo può ancora fare la differenza; tuttavia, è proprio qui che è più forte la concorrenza delle economie emergenti.
Il vano tentativo di rimanere competitivi in questi settori porta a una compressione dei salari che è continuata fino a oggi. Solo poche imprese e settori riescono a specializzarsi in produzioni di nicchia che consentono loro di prosperare pur continuando a mantenere le loro caratteristiche originali.
Anche il modello delle grandi imprese a partecipazione statale entra in crisi. Intanto, il peso dell’industria pesante nell’economia si riduce, a favore di servizi e industria leggera per i quali il modello dei grandi campioni nazionali è inadatto. Poi, specificatamente in Italia, la qualità delle politiche pubbliche si deteriora: le partecipazioni statali cessano di essere elementi della politica industriale e divengono progressivamente elargizione di rendite e fonte di corruzione, a scapito degli investimenti produttivi.
Nel settore privato, la finanziarizzazione e la diversificazione delle attività dei grandi gruppi industriali italiani li allontanano dal loro corpo di mestiere e ne minano la competitività a lungo termine.
Un’arma a doppio taglio
Insomma, i due pilastri del miracolo italiano, le piccole imprese produttive e innovative e i grandi gruppi di punta nei settori strategici, entrano in crisi e, contrariamente a ciò che avviene altrove, il modello produttivo si rivela incapace di evolvere per far fronte alle mutate circostanze esterne. La stabilità degli assetti proprietari, da fonte di stabilità gestionale diventa fonte di rendite di posizione, progressivamente erose dalla perdita di velocità del sistema nel suo complesso.
Anche il contesto internazionale gioca un ruolo importante. I regolari riallineamenti del tasso di cambio negli anni Ottanta permettono all’Italia di mitigare la graduale perdita di velocità del sistema. Ma la debolezza della lira è un’arma a doppio taglio: le piccole imprese, protette da un tasso di cambio debole e da salari stagnanti non hanno alcun incentivo a crescere e ad investire in ricerca e sviluppo, né ad abbandonare le produzioni ad alta intensità di manodopera e a basso contenuto tecnologico.
La riforma bancaria del 1993, ponendo fine alla separazione delle attività creditizie e di mercato, riduce l’importanza del mercato obbligazionario e rende più complicato un flusso di finanziamento stabile e a lungo termine per le imprese. I grandi gruppi industriali, sempre più diversificati e lontani dal loro core business, si lanciano in grandi operazioni di speculazione finanziaria e immobiliare, molto più redditizie degli investimenti reali.
Il tasso di investimento privato così scende dal 25 per cento del Pil negli anni Sessanta a meno del 20 per cento in media dopo il 2010; l’intensità capitalistica si riduce, la produttività ristagna. Una volta persa la leva del tasso di cambio, e con un sistema produttivo bloccato in un modello di specializzazione ad alta intensità di lavoro, l’unico modo praticabile per garantire la competitività del paese è la deflazione interna, cioè la pressione al ribasso su salari e prezzi, che infatti crescono meno della produttività da almeno un trentennio. Nel frattempo, il debito esplode, spinto sia da un sistema politico sempre più inefficiente, che utilizza la spesa pubblica per “comprare” la pace sociale, sia dalla necessità di sostenere redditi che ristagnano.
I cambiamenti che servono
Insomma, l’Italia è oggi il “grande malato d’Europa”, ma non è certo recuperando la lira e svalutando che guarirà; e ancor meno abolendo il reddito di cittadinanza o opponendosi all’introduzione del salario minimo, nella vana speranza che comprimere il reddito da lavoro sia sufficiente; anzi, la compressione dei redditi da lavoro è una delle ragioni della domanda anemica che ha contribuito alla stagnazione di investimenti e innovazione.
Quello che occorre è recuperare i tempi lunghi della programmazione, nella gestione d’impresa come nelle politiche pubbliche. Investimenti pubblici e riforme che migliorino la qualità della pubblica amministrazione dovrebbero mirare ad aumentare la redditività dell’investimento privato e a farlo tornare a livelli adeguati.
Una nuova politica dei redditi dovrebbe contribuire a condizioni di lavoro degne e all’accumulazione di capitale umano, invertendo la tendenza alla deflazione salariale che, contrariamente a quanto molti sostengono, ha aggravato il deficit di competitività.
Infine, e non da ultimo, riforme della governance d’impresa e una riorganizzazione del settore finanziario dovrebbero mirare a far tornare quel “capitale paziente” che solo può garantire crescita e innovazione nel lungo periodo. Si tratta di cambiamenti strutturali che non porteranno frutti immediatamente, ma che proprio per questo occorre avviare quanto prima.
© Riproduzione riservata