- Dopo la pandemia e la crisi dei microchip, le case automobilistiche si trovano ad affrontare una nuova emergenza: mancano i cablaggi a causa della guerra in Ucraina. Possibile una perdita fino a 700 mila veicoli in Europa nella prima metà di quest'anno.
- Si cerca di accorciare le catene di fornitura e di riprendere il controllo delle tecnologie più importanti. Entro la fine del 2025 saranno operativi nel continente europeo 35 impianti di accumulatori, di cui almeno un paio in Italia.
- Ma fabbricare tutto in Occidente non sarà possibile. «Siamo stati molto ingenui nell’aspettarci costi comparabili, la produzione di chip negli Stati Uniti è del 50 per cento più cara rispetto a quella di Taiwan», ha detto il numero uno della taiwanese Tsmc.
Come le vene e le arterie del sistema circolatorio degli esseri umani, le automobili sono avvolte da un invisibile reticolo di cavi che raggiunge in media i 5 chilometri di lunghezza. Se manca solo un pezzo di questo complesso fascio di fili e connettori, l’elettronica di bordo non funziona. E di conseguenza la vettura non può circolare.
Trattandosi di una lavorazione delicata che richiede molta manodopera, la produzione dei cablaggi per l’industria automobilistica avviene di solito in paesi dotati di forza lavoro di buona qualità ma non troppo costosa. Come l’Ucraina. La nazione invasa dai russi infatti conta 17 impianti di produzione di cavi per auto che, secondo la società di consulenza AlixPartners, sono il componente automobilistico più importante esportato dall’Ucraina nell’Unione europea. Peccato che con la guerra molti stabilimenti hanno dovuto fermare la produzione e il trasporto è paralizzato dalla mancanza di autisti.
Il risultato è che le case automobilistiche europee, dopo la pandemia e la crisi dei microchip, si trovano ad affrontare una nuova, devastante emergenza: mancano i cablaggi. Herbert Diess, amministratore delegato della Volkswagen, seconda casa al mondo dopo Toyota, ha ammesso che la mancanza di cavi dall’Ucraina ha sostituito la carenza di semiconduttori come il più grande problema che la società deve fronteggiare nella catena di approvvigionamento.
Colin Langan, un analista della Wells Fargo, ritiene che la chiusura degli impianti di cablaggio ucraini potrebbe portare a una perdita fino a 700 mila veicoli in Europa nella prima metà di quest’anno. Sostituire i prodotti ucraini non è semplice. Il fornitore tedesco di componenti automobilistici Leoni, che conta oltre 50 sedi e stabilimenti in Europa tra cui due in Italia, intende raddoppiare la produzione di cablaggi in alcuni dei suoi stabilimenti in altri paesi come Polonia, Romania e Tunisia, per cercare di compensare la perdita di produzione nei suoi due stabilimenti in Ucraina. Ma ci vorranno alcuni mesi.
Il caso Volkswagen
La crisi dei cablaggi è l’ennesimo campanello d’allarme per i manager europei dell’auto che si sono scoperti troppo dipendenti da alcuni paesi, diventati fornitori di numerosi componenti-chiave. Come Taiwan e Giappone per i semiconduttori. O Corea del Sud, Cina e Giappone per le batterie. La parola d’ordine ora è accorciare la catena di fornitura e distribuire gli acquisti su più mercati.
«Per le multinazionali dell’automobile non è discussione l’essere globali», precisa Josef Nierling, amministratore delegato di Porsche Consulting, «ma è in corso un ripensamento che riguarda la catena del valore: oggi non contano solo l’efficienza e il costo, ma anche gli aspetti geopolitici e l’importanza strategica di certi componenti. Di conseguenza le case cercano di non dipendere da un solo fornitore o da una sola area geografica.
Ma non va mitizzato il re-shoring, non tutte le produzioni possono essere riportate in Europa. Alcune, inclusi i semiconduttori, possono essere ingegnerizzati insieme ai produttori asiatici, altre, come i cavi, possono essere spostate in Nord Africa, ma difficilmente possono tornare in Occidente. La buona notizia per l’Italia è che in alcuni casi può assumere un nuovo ruolo strategico nei flussi, essendo al centro del Mediterraneo».
Un caso esemplare è quello della Volkswagen. Come ha rivelato il Wall Street Journal, il capo degli acquisti della casa tedesca, Murat Aksel, sta rivoluzionando le strategie di approvvigionamento del gruppo: «La carenza di chip ci ha mostrato che dobbiamo essere coinvolti nell’intera catena», ha spiegato il manager. «Vogliamo ancora prezzi competitivi, ma la mia priorità è assicurare le forniture. Senza componenti, non si possono costruire automobili. E produzione zero significa profitto zero».
Le interruzioni della produzione causate dall’invasione russa dell’Ucraina e la perdita di componenti cinesi durante la pandemia hanno messo in evidenza come la Volkswagen non può più concentrarsi solo sull’ottenere i pezzi più economici da fornitori sparsi in giro per il mondo. Per la società è diventato prioritario ottenere la consegna ininterrotta dei componenti e potrebbe accettare una doppia fornitura di alcuni pezzi, una pratica che l’industria ha abbandonato anni fa in favore di un singolo fornitore che effettua consegne just-in-time.
«Un costoso esercizio di inutilità»
Spostare la produzione di alcuni componenti-chiave, come i chip, in Occidente comporta però dei rischi. In particolare quello di far lievitare i costi. Il sito Tom’s Hardware ha riportato alcune illuminanti dichiarazioni rilasciate da Morris Chang, fondatore della società taiwanese Tsmc, tra le più grandi produttrici di semiconduttori al mondo, a un podcast della Brooking Institution: nel corso della conversazione l’imprenditore ha definito «un dispendioso e costoso esercizio di inutilità» mettersi a produrre chip negli Stati Uniti.
Attualmente la Tsmc ha un impianto in Oregon e sotto la pressione di Washington ha annunciato che costruirà un’altra fabbrica in Arizona. Ma Chaing sostiene che negli Usa manca la volontà di tenere aperte le fabbriche 24 ore al giorno, 7 giorni su 7 con tre turni, a differenza di quanto accade a Taiwan.
«Siamo stati molto ingenui nell’aspettarci costi comparabili, ma la produzione di chip negli Stati Uniti è del 50 per cento più cara rispetto a quella di Taiwan» ha detto Chang. Il quale ritiene che, nonostante la superiore capacità degli americani di progettare microchip, gli Stati Uniti non potranno diventare autosufficienti nella produzione, poiché i costi elevati renderanno difficile competere sui mercati mondiali.
La guerra delle gigafactory
Il ripensamento della rete di forniture da parte delle case automobilistiche si affianca alle sfide portate dall’elettrificazione. Nell’auto elettrica la batteria al litio è il singolo componente più costoso e il problema è che la sua fabbricazione è in mano ai gruppi asiatici, come la giapponese Panasonic, la cinese Catl, la coreana Lg, mentre l’Europa copre solo l’8 per cento della produzione globale.
«L’Asia ha sempre avuto il dominio dell’elettronica di consumo e inoltre il mercato cinese dell’auto elettrica è stato fino al 2020 il più grande al mondo» spiega Francesco Naso, segretario generale di Motus-E, associazione che riunisce i principali attori italiani della mobilità elettrica. «Di conseguenza la produzione di batterie al litio si è sviluppata laggiù».
Anche l’americana Tesla usa accumulatori della Panasonic, seppur sviluppati in esclusiva. Una situazione che l’Europa non intende accettare e per questo ha lanciato il progetto European Battery Alliance, una sorta di Airbus delle batterie, il cui obiettivo è rendere il continente indipendente in questo campo.
In concreto significa realizzare in Europa tante «gigafactory», gli stabilimenti dove vengono assemblate la batterie per auto. Ci si aspetta che entro la fine del 2025 saranno operative nel continente 35 gigafactory di cui almeno un paio in Italia. Tra i Paesi che vedranno sorgere la maggior parte di questi impianti c’è al primo posto la Germania seguita da Francia e Italia. Queste grandi fabbriche saranno il frutto di accordi tra case automobilistiche e produttori di batterie: la Bmw ha stretto alleanze con la Catl e la Northvolt; la Volkswagen con le aziende cinesi Guoxuan, Gotion High Tech e Wanxiang; Stellantis con la coreana Samsung. Tesla, Northvolt e Lg dovrebbero diventare entro il 2030 i produttori leader nel continente con il 27 per cento della capacità di produzione totale di batterie agli ioni di litio.
Ma staccarsi completamente dalla dipendenza dall’oriente è difficile se non impossibile. Le batterie montate sulle auto elettriche sono formate da decine di cilindretti o di sottili parallelepipedi, che si chiamano celle. Ciascuna cella eroga poco più di tre volt e per arrivare ai 12 o ai 48 volt richiesti dalla vettura, bisogna mettere insieme più celle creando quello che si chiama pacco batterie.
Le celle sono prodotte in Asia e sono un oggetto molto complesso che richiede impianti estremamente sofisticati. Nessuno per ora realizza celle in Europa tranne la svedese Northvolt, perché costruire una grande fabbrica è molto costoso, e quindi c’è la possibilità che le nostre gigafactory si limitino ad assemblare pacchi batteria formati da celle asiatiche. Il che potrà andare bene se le celle diventeranno una commodity. Altrimenti le case europee saranno ancora dipendenti da tecnologie che non controllano.
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