Il settore è in grave crisi a causa della pandemia, così in Francia qualcuno ha iniziato a pensare di utilizzare il vino per fare un prodotto con cui tutti siamo diventati familiari nell’ultimo anno
- La crisi ha colpito soprattutto i vini da tavola e quelli di gamma media, mentre le “Ferrari” del mondo vinicolo sono state risparmiate.
- La soluzione non è semplice e c’è chi teme che la fine della pandemia non sarà sufficiente a rimettere in sesto il settore.
- In Francia, il governo ha finanziato con centinaia di milioni di euro la distillazione di vini inveduti. In questo modo si ottiene alcol, che se abbastanza puro può essere usato in molti campi diversi.
In Francia hanno iniziato a parlarne quasi un anno fa, della distillation de crise. L’emergenza sanitaria ha bastonato senza pietà i consumi e il vino, che fino ai primi del Novecento era anche un alimento per le classi disagiate ma si è affermato sempre più come bene voluttuario e prodotto di eccellenza dell’export italiano, ci è rimasto impantanato. Ristoranti chiusi, o aperti solo a pranzo; bar ed enoteche soggetti a serrate, la prassi dell’aperitivo vietata o contingentata: tutto ha tramato per togliere alla gente la voglia di stappare una bottiglia, se non per dimenticare o rendere l’isolamento domiciliare meno frustrante.
La crisi del vino
Ma la vita casalinga, nel lockdown della primavera 2020 e nelle successive restrizioni agli spostamenti, ha favorito solo la grande distribuzione e i vini da tavola, quelli da pochi euro al litro: difficile che le famiglie si possano permettere di pasteggiare a barolo, brunello o altri vini da circostanza speciale, o anche solo da cena tra amici. Soprattutto se, al di là della spesa, le persone e le occasioni per festeggiare vengono a mancare per decreto.
L’autunno ha portato la seconda ondata di contagi, l’inverno i prodromi della terza e la campagna vaccinale di massa non è che al principio, purtroppo. Chi produce vino, oggi, non può che tentare di ragionare su ipotesi: forse il consumo fuori casa ripartirà in estate, forse in autunno. Forse la gente avrà voglia di recuperare il tempo e la vita perduti e affollerà i locali, o forse avrà meno soldi e voglia di spendere e rinuncerà, per risparmiare. Forse all’estero tornerà la voglia di approvvigionarsi dalle nostre cantine ma intanto, nei primi undici mesi del 2020, l’export ha segnato una contrazione delle vendite di 1,3 miliardi di euro nel settore del vino, rispetto allo stesso periodo del 2019. I soli Stati uniti hanno diminuito del 6 per cento l’acquisto di prodotto italiano e, a soffrire di più, guarda caso è stato il vino da aperitivo più diffuso, il prosecco (-9 per cento).
Nel mentre, le riserve in cantina lievitano, stavolta senza termini dubitativi: Coldiretti ha stimato che ci sono 6,9 miliardi di litri di vino in giacenza, in tutta Italia. E a soffrire di più non è il vino comune, magari nel tetrabrik o nel pintone, ma quello a valore aggiunto che, ormai, rappresenta la gran parte della produzione italiana: solo il 30 per cento del prodotto di casa nostra è vino da tavola. «Al 31 gennaio – recita il comunicato - ci sono almeno 150 milioni di litri fermi in cantina in più rispetto allo scorso anno, secondo l’ultimo aggiornamento del ministero delle Politiche agricole. La diffusione dei contagi fa prevedere una aggravamento della situazione […] Per la prima volta, dopo anni, le vendite sui mercati internazionali sono in calo del 3 per cento».
Una soluzione d’emergenza
Ed ecco la proposta: «Non bisogna perdere altro tempo: è necessario intervenire con una distillazione di emergenza, rivolta ai vini a denominazione e indicazione geografica, con l’obiettivo di togliere dal consumo alimentare almeno 200 milioni di litri di vini e mosti a valori paragonabili a quelli di mercato, per garantire la sopravvivenza delle aziende». La Francia lo ha già fatto. Lo scorso 5 agosto, il primo ministro Jean Castex ha annunciato una serie di aiuti ai viticoltori, per permettere ai produttori di distillare 260 milioni di litri con un piano da 246 milioni di euro, 127 di provenienza europea e il resto di tasca parigina. Perché distillare? Semplice, a detta di chi sostiene il provvedimento: si trasforma un prodotto invenduto in un altro vendibile, pronto per una quantità di usi industriali, dall’ingrediente principale dei superalcolici all’energia per gli spostamenti fornita dal bioetanolo, dai profumi alla farmacopea in genere. Separando l’acqua dall’alcol etilico, e trattandolo con frazionamenti successivi, lo si rende puro a sufficienza per tutti gli usi. Compreso quello più tristemente celebre, la miscela che ogni persona ha imparato a utilizzare ogni giorno, più volte al giorno durante la pandemia: il gel idroalcolico per uccidere il virus che si deposita sulle mani.
Certo, non è un discorso che possa valere per tutti. I produttori di nicchia, chi fa vino da invecchiamento, le firme, le denominazioni più prestigiose sono fuori discussione. Ma in gioielleria non si vendono soltanto i Patek Philippe. Ci sono regioni - come la Puglia, ma non solo - in cui esiste anche una tradizione di vini a denominazione, di classe media, produzione abbondante e prezzo più abbordabile rispetto alle Ferrari dell’enologia, e sono quelle le merci più colpite dalla pandemia. I francesi, peraltro, hanno subito previsto la possibilità di portare in distilleria sia il vino da tavola sia quello di qualità superiore, riconoscendo 58 o 78 euro a ettolitro a seconda del caso. L’Italia, invece, nei mesi scorsi ha dato sì il via libera alla distillazione di crisi, con aiuti da 50 milioni, ma soltanto per i vini comuni. La recente proposta di Coldiretti, rivolta al governo, è invece pensata per investire ulteriori 150 milioni di euro statali (i fondi europei paiono scarseggiare) per garantire ai produttori un valore medio di 75 euro a ettolitro, e per realizzare una produzione di 25.000 litri di alcol e gel disinfettanti di origine italiana provenienti dalla distillazione di vini Doc. Dal momento che – aggiungono – tuttora sussiste un problema di approvvigionamento di materia prima per le soluzioni idroalcoliche, spesso comprata all’estero, si potrebbe trasformare un problema in qualcosa di utile. «In gioco c’è il futuro del primo settore dell’export agroalimentare made in Italy – dice ancora l’organizzazione - che sviluppa un fatturato da 11 miliardi di euro e genera opportunità di lavoro per 1,3 milioni di persone impegnate direttamente nei campi, nelle cantine e nella distribuzione commerciale, ma anche in attività connesse e di servizio e nell’indotto che si sono estese negli ambiti più diversi: dall’industria vetraria a quella dei tappi, dai trasporti alle bioenergie, da quella degli accessori come cavatappi e sciabole, dai vivai agli imballaggi, dall’enoturismo alla cosmetica, fino al mercato del benessere».
«Una cialtronata»
Eppure, non mancano le voci ostinate e contrarie. Come quella di Walter Massa, l’istrionico produttore piemontese che ha ereditato la nomea di guru e bastian contrario da personaggi leggendari del vino come Bartolo Mascarello: per lui, interpellato mesi fa in occasione delle prime discussioni sul provvedimento, la distillazione di crisi è «una cialtronata», un «autogol clamoroso», perché svilisce il lavoro di qualità e non risolve il problema a monte del sistema Italia: imparare a vendere il vino, non solo a farlo. Come i francesi. Come la nonna (francese) del Roi dei vini piemontese, Angelo Gaja, che aveva insegnato al nipote il motto: «Faire, savoir faire, savoir faire faire, faire savoir». Noi italiani siamo più bravi a saper fare, che non a far sapere. È una battaglia economica ma anche culturale, che si perde in mille rivoli: i vigneron più celebri, dal patriarca Mascarello in avanti, hanno sempre osteggiato l’assalto al territorio, la foga di piantare vitigni ovunque, pure quelli più pregiati, pur di produrre e fatturare di più. Giusto. Vero è pure che chi è nato nell’Eden del vino, vende a ottanta euro la bottiglia e ha più domanda che offerta, è anche più incline a farsi portatore di discorsi – sacrosanti – di salvaguardia. Ben prima che arrivasse la calamità del Covid-19, del resto, si era già posto il problema (chiamiamolo pure scandalo, ancorché del tutto legale) delle bottiglie di barolo a meno di 10 euro sugli scaffali del supermercato, accanto a birre artigianali che costano di più.
La pandemia ha agito da acceleratore alle storture e alle contraddizioni del settore enoico italiano, nel quale per decenni si è agito guardando al proprio cortiletto. Ora che il tempo stringe, fioccano le proposte: dal gel per le mani ai patti di sapore medievale, come il pegno rotativo appena proposto dal gruppo bancario Intesa Sanpaolo con il consorzio di tutela dei vini di Alba: 50 milioni di euro sul piatto per finanziamenti a 5 anni, con preammortamento, in cambio dell’iscrizione – da parte del produttore – in pegno delle ultime tre annate di barolo e due di barbaresco. Il pegno non è possessorio, sicché il proprietario delle uve può continuare a disporre del vino offerto in garanzia, nella speranza che, frattanto, il mondo riparta. Perché di gel di barolo no, nessuno vuol sentire parlare. Neanche per scherzo.
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