- Per anni è stato il curatore degli interessi del Cav in vigilanza Rai, guadagnandosi l’etichetta di “pidiellino doc”. Ora ha a che fare con il Bolloré che con Berlusconi ha firmato la pace.
- Ha la delega alla strategia delle rete unica, ma i rapporti con il ministro Urso si sono complicati e al ministero delle Imprese dicono che non sarà lui a decidere.
- Dagli anni del Pdl alla scelta di seguire Meloni, dal ritiro a Como come dirigente di cooperative in affari con la sanità lombarda al ritorno al governo: le molte vite del sottosegretario Butti.
Voi non capite una minchia di televisione», dichiarava Alessio Butti nei giorni turbolenti in cui ricopriva il ruolo di portavoce berlusconiano nella commissione di vigilanza della Rai. Voi non capite una minchia, al contrario di me, s’intende. E in effetti di televisione e media Butti si è occupato molto più che di telecomunicazioni, settore in cui si è fatto conoscere dai professionisti del comparto solo di recente.
Con la stessa fierezza con cui oggi fa dichiarazioni sul destino della rete di Tim a borse aperte o sulla necessità di archiviare Spid con strategie ancora incerte, nei primi anni Duemila l’attuale sottosegretario all’innovazione del governo Meloni proponeva di alternare conduttori e programmi con “estrazione culturale” differente per rispettare la par condicio o spiegava al Fatto quotidiano che era necessario offrire un programma a Giuliano Ferrara per compensare lo spazio occupato da Enzo Biagi, allora già morto.
Destra lombarda
Comasco, 58 anni, almeno tre vite alle spalle, l’uomo che Giorgia Meloni ha portato a palazzo Chigi con deleghe apparentemente molto pesanti – tra le altre alla strategia per la banda larga e per i dati pubblici e le politiche strategiche per le reti di telecomunicazioni – è un Fratello d’Italia molto più vicino all’amico Ignazio La Russa che ad Adolfo Urso, il ministro che mantiene la delega alle comunicazioni con cui deve per forza di cose confrontarsi.
Viene da quella Lombardia in cui la destra degli ex missini si è accomodata sotto l’ombrello largo berlusconiano molto più comodamente che altrove. In questo, Butti nella sua lunga carriera parlamentare, iniziata con il biennio di Tangentopoli e proseguita poi ininterrottamente dal 1996 al 2012, è stato un vero campione.
Entrato nella commissione di vigilanza sulla televisione pubblica all’inizio dell’era berlusconiana, forte di esperienze di consulenza nel marketing per le prime televisioni private lombarde, ne uscirà più di un decennio dopo.
Negli anni dei governi Berlusconi, della legge Gasparri, del muro contro muro sui programmi televisivi non graditi e del conflitto di interesse a reti unificate, Butti è stato la sentinella che controllava la Rai nel nome degli obiettivi di Berlusconi.
Pidiellino doc
Salì alla ribalta nazionale soprattutto nel 2011, quando propose un atto di indirizzo per la tv pubblica che prevedeva nell’ordine: che la Rai rispecchiasse l’orientamento dei cittadini così come espresso dalla sovranità popolare nel voto, e più specificamente che ogni partito dovesse essere rappresentato in base al consenso che raccoglie nel paese; che i programmi di approfondimento (compresi quelli di satira, con il difetto di affrontare temi di attualità) avessero almeno due opinionisti con orientamenti diversi, che si alternassero i conduttori, che i programmi di inchiesta non fossero più coperti dalla tutela legale della Rai, solo per citare le regole più larghe e non quelle pensate ad hoc per esempio per i programmi di Santoro.
Con lo scontro con l’opposizione ai massimi arrivò persino a non presentarsi a un incontro sul pluralismo con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e riuscì a far ammettere all’allora presidente della Rai, Paolo Garimberti convocato in audizione in parlamento, l’esistenza di un problema di pluralismo al Tg3.
Quando la Fnsi denunciò la possibilità che azionisti vicini a Berlusconi entrassero nel patto di sindacato del Corriere della Sera, accusò il sindacato della stampa di vedere fantasmi. Libero gli riconosceva allora l’etichetta di «pidiellino doc». E in effetti non criticò mai la figura di Berlusconi, nemmeno dopo aver lasciato il Pdl nel 2012 per entrare in Fratelli d’Italia, scelta che mise fine anche alla sua lunghissima esperienza parlamentare per tornare in provincia a vivere la sua seconda vita.
Fuori dal parlamento, Butti si è riciclato nella sua Como come consigliere e amministratore di diverse società cooperative dedicate all’assistenza socio sanitaria. Onlus dai nomi evocativi dell’immaginario meloniano come Aslan, Gandalf, Aragon o Avalon, oggi tutte in liquidazione, ma che negli anni di attività hanno incassato importi ingenti dalla pubblica amministrazione, e cioè dalle aziende sanitarie lombarde, per le prestazioni fornite. Per esempio nel 2017 la Aslan di cui era presidente del consiglio di amministrazione, registrava contributi pubblici superiori al mezzo milione di euro. Aragon, in cui ricopriva lo stesso ruolo oltre 700mila euro nel 2018.
Anche in quegli anni, da esponente di spicco della destra locale, Butti commentava con i giornali il tracollo di Forza Italia «con la tristezza nel cuore», spiegando di aver capito da tempo che serviva un cambio radicale di classe dirigente, con Berlusconi come padre nobile.
Con altri suoi ex compagni di strada non fu così tenero, nemmeno da parlamentare. La Rai invitava Daniela Santanché, ex candidata perdente della Destra, a Domenica In? Butti chiedeva ai dirigenti subito spiegazioni. Gianfranco Fini, reo di aver strappato con Berlusconi, diceva che erano tempi maturi per liberare la Rai dai partiti, subito Butti replicava: «Attendiamo che a dare il buon esempio siano non solo il presidente della Camera, ma anche gli accoliti di Futuro e libertà». Entrato nel consiglio di amministrazione del Secolo d’Italia nel 2010, fu anche tra coloro che decisero il siluramento dell’allora direttrice Flavia Perina, fedelissima di Fini. Il ministro Urso allora era dall’altra parte, con Fini e a difendere la direttrice allontanata, e anche in Fratelli d’Italia entrò con tre anni di ritardo.
Butti, invece, quando ha dovuto scegliere ha scelto subito Giorgia Meloni e sta qui uno dei motivi della sua ascesa nell’attuale governo. La fedeltà, nella destra dell’onore, viene premiata sopra tutto. Anche se porta a una difficile convivenza all’interno della compagine di governo. Dal ministro con cui deve coabitare forzatamente, lo dividono storia politica, carattere e approccio ai dossier, ma di certo l’attuale sottosegretario ha dimostrato anche grandi capacità di rinnovarsi e adattarsi al momento politico ed economico.
Il passaggio alle telecomunicazioni
Se a Giovanbattista Fazzolari si deve l’intuizione di aver creato il dipartimento studi che ha permesso a Fratelli d’Italia di aggiornarsi, appropriandosi più degli altri partiti delle parole d’ordine dell’attuale dibattito europeo, Butti ha avuto quella di andare a riempire una casella di competenze che nel suo partito non occupava nessuno. E per farlo, gli riconosce anche chi non lo ama, ha studiato, contattato esperti, chiesto consigli.
Per mesi, è stato tra i pochi ad utilizzare gli argomenti giusti contro l’idea di una rete unica con un operatore privato come Tim nel ruolo di azionista di maggioranza, cioè il progetto sviluppato di fatto sotto il governo giallo rosso.
Poi da giugno scorso, con l’orizzonte dell’arrivo al governo il tono delle sue dichiarazioni è cambiato e, ha iniziato ad attaccare l’altra società protagonista del progetto, OpenFiber e di conseguenza anche il nuovo progetto messo a punto per mesi dalla Cassa depositi e prestiti di Dario Scannapieco che prevedeva l’acquisizione della rete Tim.
Al suo posto Butti ha per settimane sponsorizzato un suo famigerato piano Minerva, i cui dettagli non sono mai stati delineati, ma che secondo le versioni preliminari, poi da lui stesso smentite, avrebbe previsto una opa su tutta Tim.
Tra Cdp e Vivendi
Nell’ultimo periodo ha curato anche i rapporti con Alessandro Daffina, il potente amministratore di Rotschild Italia, che però nella questione rete unica è anche advisor del patron di Vivendi Vincent Bolloré e con questa qualifica ha partecipato anche agli incontri di fine anno voluti dal ministro Urso.
Dopo aver firmato la pace con Berlusconi su Mediaset e Premium, Bolloré, azionista di maggioranza di Tim, punta a incassare il massimo da un investimento infruttuoso, chiedendo di valutare la rete di Tim 30 miliardi, un valore molto maggiore rispetto alle analisi indipendenti.
Le richieste di Bolloré, legittime dal punto di vista del primo azionista di una società privata sono ancora oggi uno scoglio non da poco per qualsiasi ragionamento sulla rete unica. Eppure, secondo chi ci ha lavorato per mesi, lo scoglio si sarebbe potuto superare: se Cdp avesse presentato la sua offerta si sarebbero scoperte le carte, mentre un’opa totale sarebbe molto più dispendiosa per lo stato. Urso e Butti in ogni caso hanno stoppato tutto, e aperto un tavolo per dialogare direttamente con Vivendi, Tim, Cdp.
Lo hanno fatto però ognuno a suo modo, il primo cercando di tenere sempre il basso profilo, il secondo esondando, fino ad arrivare a buttare a mare tutte le ipotesi sulla risoluzione della vicenda con dichiarazioni a borse aperte.
Così, quando, Giorgia Meloni, nella conferenza di fine anno ha ripetuto che su vicende che coinvolgono società quotate come Tim serve cautela, la sua risposta ovvia è suonata come reprimenda al sottosegretario. Chi lavora con Urso è anche più netto: non è lui che decide sulle comunicazioni, dicono dal ministero, è così solo su giornali e tivù.
Ecco, di giornali e tivù, Butti se ne intende.
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