«Nel 2024 prevista una crescita superiore alla media europea», ha detto la premier. Ma non è vero. Mentre su Mes e la manovra Meloni ha contraddetto il ministro Giorgetti. Quanto alla tassa sugli extraprofitti, in versione riveduta e corretta, le speranze dell’esecutivo sono state presentate come fatti certi
Tra dati sbagliati, previsioni fumose e contraddizioni evidenti, Giorgia Meloni ha esibito ottime doti da slalomista tra i paletti dell’economia. Sulle misure chiave della manovra appena approvata, cioè quelle sul cuneo fiscale e le aliquote Irpef, ha detto che conta di confermarle anche nel 2025 grazie a ulteriori tagli nella spesa pubblica e comunque senza aumento delle tasse. Solo qualche giorno fa, però, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha dichiarato l’esatto contrario in un’intervista al Sole 24Ore. Per Giorgetti le risorse vanno trovate disboscando la selva delle agevolazioni fiscali (tax expenditures). Un’operazione, sempre annunciata ma mai realizzata da tutti i governi, che corrisponde di fatto a un incremento della tassazione.
Meloni comunque ha escluso (per ora) una manovra correttiva in corso d’anno («mi pare presto per parlarne»), mentre a proposito di crescita, questione decisiva per l’andamento dei conti pubblici, la presidente del Consiglio ha glissato sul forte rallentamento degli ultimi mesi ripetendo la formula stanca che la «crescita italiana stimata quest’anno è superiore alla media europea».
Stimata da chi? E quando? In realtà, i maggiori organismi internazionali, dalla Ue al Fmi, di recente hanno ridotto le loro previsioni di crescita per l’Italia, che per il 2024 ora sono nettamente inferiori a quelle accreditate dal governo di Roma (0,7-0,8 per cento contro 1,2 per cento). Quanto al confronto con l’Europa, la Commissione di Bruxelles nel suo rapporto più recente (novembre) stima che quest’anno il Pil della Ue non andrà oltre l’1,3 per cento (1,2 per cento nell’Eurozona) contro lo 0,9 per cento attribuito all’Italia. La stessa Banca d’Italia stima per il 2024 una crescita dello 0,6 per cento.
Quanto alla mancata ratifica del Mes, altro tema a dir poco spinoso se non altro per la traballante posizione del ministro Giorgetti («l’avrei approvato» ha detto giorni fa il titolare del Mef), qui Meloni ha esibito straordinarie doti da illusionista attribuendo la decisione a un’autonoma iniziativa del Parlamento. «Il governo si è rimesso all’aula», ha spiegato la premier senza un attimo d’imbarazzo. Parole che rischiano di suonare beffarde, dato che sono state pronunciate dalla responsabile di un esecutivo che ha fin qui sistematicamente utilizzato le Camere per la ratifica di decisioni già prese in Consiglio dei ministri. E comunque, secondo Meloni, il Mes sarebbe uno strumento «obsoleto».
Gli altri 19 governi dell’Eurozona, nessuno escluso, la pensano diversamente, visto che hanno da tempo ratificato la riforma. La premier però non ha ritenuto di entrare nel merito e non ha spiegato le ragioni della scelta italiana. Più comodo rifugiarsi nella retorica. Ed ecco, allora, alcuni slogan classici del repertorio meloniano. Tipo: «Dobbiamo essere più consapevoli del ruolo che abbiamo, perché non abbiamo minori diritti delle altre nazioni» e anche «nessuno in Europa ce la farà pagare».
La retorica ha fatto capolino anche nella risposta a proposito della tassa sugli extraprofitti bancari, corretta, e annacquata, in corsa, dopo roboanti annunci a cavallo di Ferragosto. «Abbiamo tassato profitti ingiusti», ha detto Meloni, ripetendo quanto già affermato in altre occasioni.
Manca ancora, però, una definizione di “ingiusto”. Quando, esattamente, un profitto diventa ingiusto? E perché il concetto si applica solo alle banche e non ad altre aziende che in questo periodo hanno visto aumentare di molto i loro profitti, per esempio quelle farmaceutiche o quelle legate alla produzione di armi? Niente, neppure un vago accenno di spiegazione sul tema.
La presidente del Consiglio ha però affermato che la nuova versione della tassa sugli extraprofitti consentirà alle banche di rafforzare il patrimonio, quindi di fare più prestiti e infine di aumentare i ricavi che si tradurranno i maggiori utili e quindi in un aumento del prelievo fiscale a beneficio dello Stato. Una speranza, più che un fatto, visto che con il peggioramento della congiuntura economica anche le sofferenze sui crediti sono destinate a salire.
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