Per gli italiani i fattori che definiscono una società buona sono un’assistenza sanitaria di qualità, il vivere in un mondo senza guerre e armi, il divenire una società in cui uomini e donne siano uguali, il diritto di tutti a una buona istruzione, la necessità di ridurre le differenze tra i ricchi e i poveri, il garantire un livello di reddito base per tutti
Il sociologo Zygmunt Bauman sosteneva che il Novecento aveva tradito le promesse di buona società. Il nuovo secolo non sembra fare meglio e il suo primo ventennio è segnato da un acutizzarsi delle crisi economiche, dall’esplodere della crisi ambientale, dal ritorno prepotente dei conflitti bellici, dal susseguirsi di più o meno gravi pandemie, dalla capitolazione delle forme di protezione sociale e dall’ampliamento delle disuguaglianze sociali, nonché dall’inverno demografico.
Per gli italiani i fattori che definiscono una società buona, oltre alla democrazia e alla libertà, compongono un alveare tematico, al cui vertice troviamo l’accesso a un’assistenza sanitaria di qualità (54 per cento, dato che sale al 58 per cento tra i ceti bassi); il vivere in un mondo senza guerre e armi (36) e il divenire una società in cui uomini e donne siano uguali (35 per cento).
A questi tre tratti fondamentali si aggiungono: il diritto di tutti a una buona istruzione (32), la necessità di ridurre le differenze tra i ricchi e i poveri (30), il garantire un livello di reddito base per tutti (29), lo sviluppo di una dimensione relazionale tra le persone più armonica e a basso tasso di violenza (28), nonché il diritto di ogni persona ad avere un tetto sotto cui vivere (24 per cento, dato che sale al 34 per cento nei ceti popolari).
Agenda setting
Se spostiamo lo sguardo dalla definizione di che cosa è una buona società e focalizziamo l’attenzione su quella che potrebbe essere una agenda setting per avanzare, nel quotidiano sulla via della costruzione di una buona società, l’elenco tematico diviene lungo e mostra in controluce tutto quello che manca alla realtà italiana odierna. Al primo posto c’è sempre il tema della qualità dell’assistenza sanitaria (50 per cento).
Al secondo posto troviamo il tema del lavoro, nella sua duplice accezione di un equilibrio tra impegno lavorativo e vita privata (35 per cento) e di posto sicuro, non sottoposto alla mannaia della precarizzazione (34). Al terzo posto incontriamo i temi della sicurezza sociale: una pensione adeguata in età avanzata (32) e un sostegno al reddito da parte dello stato in caso di perdita di lavoro, malattia o disabilità (30).
Seguono, a ruota, il tema delle pari opportunità tra uomo e donna, anche qui nella loro duplice accezione di uguaglianza retributiva (29) e di parità nell’accesso a lavoro e carriera (26); il tema della sicurezza civica, la possibilità di essere tranquilli e sicuri per le strade e i quartieri delle proprie città (28), nonché tutti gli aspetti legati alla sostenibilità e alla cura dell’ambiente, ai giovani e alla loro istruzione, all’incremento delle opportunità lavorative, specie per chi lo ha perso.
Fanno parte di questo contesto anche gli investimenti su un efficiente sistema di assistenza per l’infanzia (15 per cento) e su un innovato modello di formazione permanente (13 per cento). Salute, pace, lavoro giusto, tutele sociali, parità di genere, sicurezza, casa, istruzione di qualità, armonia sociale e comunitaria, contrasto e riduzione della violenza, riduzione delle distanze sociali, qualità dell’ambiente e lotta ai cambiamenti climatici, servizi per infanzia e giovani, sono alcune delle componenti di quella speranza di “buona società” che sembra sempre più allontanarsi nell’incedere della quotidianità.
Bene comune
La caduta nella cura del bene comune, sostituita dall’orgia liberista che incita ai consumi sfrenati e a uno stile di vita che misura la qualità esistenziale dal volume e dall’intensità degli acquisti, non è più sostenibile. Incamminarsi verso una società buona comporta delle scelte di campo.
Vuol dire valorizzare l’individualità entro la società, con gli altri e non a scapito degli altri. Vuol dire rimettere al centro la spinta, complessiva e collettiva, verso quell’intento di rendere la società più umana e l’esistenza di tutti più buona. Vuol dire focalizzare le energie personali e individuali, politiche e statali, ma anche delle imprese e dei manager, nel ridimensionare l’ingordigia degli ideali dell’opulenza privata e del lucro, per lasciare nuovo spazio ai valori del mutuo aiuto, dell’attenzione reciproca, del contributo individuale al benessere di tutti.
Occorre provare a rimodulare le sorgenti della felicità e della dignità personale e del successo (privato come aziendale), provando a eliminare quelle che richiedono il saccheggio delle risorse del pianeta, l’aumento delle distanze sociali e delle disparità, per orientarsi verso un progetto di prosperità durevole e verso nuove forme di gratificazione personale fondate sull’umana coabitazione, sul governo dei beni collettivi, sulla capacità e volontà di prendere decisioni che non siano mosse dalla ricerca del puro profitto, dalla convenienza immediata, dal garantire privilegi solo ad alcuni segmenti sociali.
© Riproduzione riservata