- Tangentopoli fu la miccia che innescò l’implosione di un sistema politico già in difficoltà da un paio di decenni, costretto ad adattarsi ad un mondo reso differente dalla caduta del Muro di Berlino e dai processi di europeizzazione.
- Si pensò di risolvere la crisi passando a un modello di democrazia “maggioritaria”. In realtà, è molto difficile che una democrazia cambi “tipo” in modo radicale. L’unico precedente storico di significativo era la Francia di De Gaulle e il passaggio al semipresidenzialismo. La nostra transizione si è bloccata presto.
- Nel biennio 1992-1994 cambiò la legge elettorale, ma soprattutto cambiò in modo drastico il sistema partitico: nessuna delle famiglie politiche fondatrici della Repubblica rimase in campo con i suoi simboli, il suo nome e la sua classe dirigente.
Davvero il 1992 è un anno che non ha cambiato l’Italia, come ha titolato provocatoriamente Domani giovedì 17 febbraio?
In realtà, l’Italia attuale assomiglia a quella del 1992, ma in peggio. L’ampia e dettagliata ricostruzione pubblicata da Giorgio Meletti su questo giornale sempre giovedì 17 riassume bene la tendenza del dibattito pubblico a rimanere prigioniero di coazioni a ripetere che paiono eterne e a evitare il confronto con le sfide proprie della contemporaneità.
Noi ci limitiamo ad aggiungere a quelle elencate da Meletti alcune considerazioni riferite in modo più specifico al sistema politico, poiché “Mani Pulite” è stata la miccia che ha innescato l’implosione di un sistema già da tempo in difficoltà. E perché riteniamo che quanto accaduto trent’anni fa, all’inizio di quella che è stata definita una “lunga transizione”, condizioni ancora pesantemente la politica italiana, intrappolandoci in uno stallo che ci impedisce di pensare in modo più nitido al nostro futuro.
La “lunga transizione politica italiana” prende formalmente avvio il 5 aprile 1992, quando, alle elezioni politiche, i partiti di governo (un “pentapartito” trasformato in “quadripartito” DC – PSI – PSDI – PLI dalla defezione del PRI) subiscono un brusco arretramento: essi non raccolgono più la maggioranza assoluta del voto popolare, “fermandosi” al 48,8%.
La DC tocca il suo minimo storico, 29,7%, perdendo 4,6 punti percentuali (nel 1987 era al 34,3) e gli eredi del PCI (PDS e Rifondazione comunista) ottengono solo il 21,7%, mentre il PCI nel 1987 aveva ottenuto il 26,6% (la perdita complessiva è di 4,9 punti). Emerge la Lega La Lega Nord risulta il principale beneficiario della crisi dei partiti tradizionali.
Grazie alla leadership di Umberto Bossi, la Lega unifica diverse formazioni locali di matrice autonomista e con il 23% dei voti diviene secondo partito in Lombardia, a ridosso della DC (24%). Persino laddove tutto era cominciato, nella (ormai ex) roccaforte “bianca” del Veneto, la DC scende al 31,5%, mentre la Lega arriva al 17,8, rafforzandosi soprattutto nelle ex aree di forza della DC, i distretti industriali del Veneto pedemontano, rivoluzionati dalla grande trasformazione socioeconomica degli anni precedenti.
È l’approdo di un processo iniziato silenziosamente nei primi anni Ottanta, quando la comparsa sulla ribalta politica della Liga Veneta (“la madre di tutte le Leghe”, secondo uno dei suoi fondatori, Franco Rocchetta) annunciava la riemersione della linea di frattura centro/periferia e, con essa, una sfida radicale agli equilibri politici dell’Italia così come s’era venuta formando nel secondo dopoguerra. Il mutamento degli equilibri nel sistema politico italiano è favorito dal contesto complessivo in cui si svolgono le elezioni: oltre alle inchieste della Magistratura, sono le prime consultazioni “post-1989” e il crollo del Muro di Berlino ha scosso nel profondo le identità delle forze politiche italiane così fortemente condizionate dalla “Guerra fredda”. Inoltre, il sistema politico è messo sotto pressione dal processo di europeizzazione (il trattato di Maastricht è stato firmato il 7 febbraio 1992).
Infine, il 25 aprile 1992 il Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, rassegna le dimissioni, anticipando di poco la scadenza del mandato, in polemica con quella che, a suo dire, è una mancanza di volontà di riforma del sistema dei partiti. È in questo clima che si diffonde la convinzione che la crisi della “Repubblica dei partiti” possa essere risolta soltanto cambiando “tipo” di democrazia.
Il tentativo Maggioritario
Quanto viene proposto, dal movimento referendario di Mario Segni, dai radicali di Marco Pannella e dai più influenti giornali italiani, con in testa “il Corriere della Sera” e “la Repubblica”, è una transizione da un modello “consensuale” di democrazia, come quello edificato dalla Costituzione entrata in vigore nel 1948, a un modello “maggioritario”.
Questa distinzione fra tipi differenti di democrazie è stata articolata dal politologo Arendt Lijphart (“Le democrazie contemporanee”, il Mulino, 1988) e si fonda – semplificando all’ estremo – su elementi quali la legge elettorale proporzionale, il multipartitismo e il decentramento, da un lato, contrapposti ad elementi quali legge elettorale maggioritaria, tendenziale bipartitismo e centralizzazione, dall’altro. Storicamente, il cambiamento del tipo di democrazia è fenomeno assai raro.
Da un punto di vista empirico, l’unico precedente di passaggio da un tipo democratico non maggioritario ad uno maggioritario è quello francese fra la Quarta e la Quinta Repubblica, nel 1958, in un contesto internazionale critico che seguiva la crisi algerina e con un leader, quale Charles de Gaulle, che poteva scavalcare partiti deboli e in crisi, appoggiandosi non solo ad un’ampia porzione della società, bensì anche ad istituzioni statali robuste.
Come ha ben spiegato Leonardo Morlino, dobbiamo sempre ricordare che ciascun tipo di democrazia si adatta ad aspetti di fondo di un paese che non possono essere cambiati con una semplice dichiarazione di principio. Inoltre, il paradosso della democrazia consiste nel fatto che un modello maggioritario è ammissibile solo se vi è un ampio consenso di fondo tra le diverse forze politiche presenti al momento dell’instaurazione della democrazia e durante il suo consolidamento.
Nel caso italiano, i Padri e le Madri costituenti hanno scelto un tipo di democrazia “consensuale”, poiché, considerate le linee di conflitto presenti nella società, quel modello è stato considerato il più idoneo ad assicurare il consolidamento della democrazia. Naturalmente, l’evoluzione successiva può schiudere opportunità di mutamento in direzione maggioritaria.
Tuttavia, spingono in direzione contraria gli attori rilevanti, già presenti nell’ arena politica, che rischiano di essere penalizzati dal cambiamento. Ed è quanto puntualmente è accaduto nel nostro paese. Inoltre, l’Italia degli anni Novanta è caratterizzata da processi di decentramento, tipici delle democrazie “consensuali”, per effetto di forti culture politiche locali, continuamente mobilitate e ulteriormente stimolate dai processi di europeizzazione e globalizzazione, di cui l’emersione e l’affermazione della Lega Nord costituiscono solo un aspetto.
E le retromarce
Per tutti questi motivi, se analizziamo la “lunga transizione italiana” attraverso lo schema di Lijphart lungo l’asse consensuale/maggioritario riscontriamo un percorso incoerente, in cui prima, nel 1993, ci si orienta in direzione maggioritaria, per mezzo di una legge elettorale “mista”, con prevalenza di seggi assegnati tramite collegi uninominali (il “Mattarellum”, nella celebre definizione di Giovanni Sartori), poi, dopo poco più di un decennio, si reintroducono elementi consensuali, con una legge elettorale proporzionale con premio di maggioranza (il “Porcellum”, ancora secondo Sartori) e tramite processi di decentramento. Pertanto, la prospettiva di Lijphart si rivela solo parzialmente utile per comprendere le trasformazioni del sistema politico italiano, che sono fortemente condizionate dalle peculiarità degli attori del sistema partitico.
A nostro avviso, è proprio su questo livello che dev’essere concentrata l’attenzione per verificare se il nostro sistema politico potrà pervenire ad un assetto più stabile. Non vi può essere stabilità politica in presenza di un sistema partitico destrutturato. E la strutturazione del sistema partitico dipende dalla capacità dei partiti di intercettare e rappresentare le linee di conflitto che – nonostante l’elevata volatilità elettorale dei nostri anni – attraversano la società. Ricordiamo, infatti, che questa lunga transizione ormai trentennale si apre quando una neo-formazione (la Lega) riesce a rappresentare nell’arena politica una linea di frattura riemergente (centro-periferia).
Dopo di allora altre forze politiche (in particolare Forza Italia e il Movimento cinque stelle) si affermano tematizzando, ognuno in maniera peculiare, una linea di frattura anti-establishment, ossia di critica riguardo all’ operato delle classi dirigenti, nazionali ed europee. Tutto questo è avvenuto indipendentemente dai cambiamenti del sistema elettorale, che non incidono in tempi rapidi sulla cultura politica dell’elettorato.
Uno degli effetti più duraturi della stagione post “Mani Pulite” è convinzione diffusa che la crisi dei partiti si possa risolvere facendo a meno di essi. Soprattutto negli anni ’90 si è parlato a lungo di un'obsolescenza, una necessità di superamento dei partiti: nessuno però ha ancora trovato dei sostituti funzionali. Tutti i regimi democratici contemporanei si basano su un sistema di partiti, piaccia o meno.
Pertanto, dalla ricostruzione di partiti in grado di svolgere la propria funzione rappresentativa si deve cominciare, tenendo conto di un contesto ulteriormente trasformato da irreversibili processi di personalizzazione e digitalizzazione della politica. Vasto programma, potremmo dire, ancora con De Gaulle…
© Riproduzione riservata