L’Italia, al sorgere del virus, era alle prese con una lunga e complessa fase di transizione economica e sociale e il covid si è inserito su di essa con effetti dilatatori e amplificatori.
Dopo 14 mesi di pandemia, il 61 per cento degli italiani (era il 57 per cento a gennaio 2021) ha più paura delle crisi economica che del virus (39 per cento. Era il 43 per cento a gennaio). Il 9 per cento prevede che perderà del tutto il suo reddito nel 2021. Solo il 5 per cento immagina un aumento.
La pandemia ha accentuato le differenze di status, di classe, di genere, di luogo di residenza, di tipologia di abitazione, di opportunità lavorative, di competenze digitali e di saperi.
La pandemia è piombata sulle coscienze sonnacchiose e distratte di una società consumeristica di massa, attraversata dal profumo inebriante del senso di onnipotenza dei suoi membri, avvolta nel mito del tutto e subito e avviluppata in un egotismo esasperato e poco incline a autolimitarsi.
L’Italia, al sorgere del virus, era alle prese con una lunga e complessa fase di transizione economica e sociale e il covid si è inserito su di essa con effetti dilatatori e amplificatori.
Dopo 14 mesi di pandemia, il 61 per cento degli italiani (era il 57 per cento a gennaio 2021) ha più paura delle crisi economica che del virus (39 per cento. Era il 43 per cento a gennaio). Il paese, oggi, si ritrova economicamente infragilito, con il 57 per cento degli italiani che denuncia un calo potenziale del reddito familiare per il 2021. Di questi, il 34 per cento prevede una contrazione tra il 20 e il 50 per cento.
Il 23 per cento prospetta una riduzione entro i limiti del 20 per cento, mentre per il 9 per cento il rischio è di azzeramento, per la possibile perdita del lavoro, dell’attività o del lavoretto precario. A prospettare una crescita del reddito sono solo il 5 per cento delle persone, mentre un altro 29 per cento ritiene stabile la propria condizione.
Gli effetti sociali del Covid
Le ricadute sulla società, determinate dal Covid, non si limitano all’economia e allo status delle famiglie. La pandemia porta con sé diversi e molteplici “effetti collaterali”. Essa ha accentuato le differenze di status, di classe, di genere, di luogo di residenza, di tipologia di abitazione, di opportunità lavorative, di competenze digitali e di saperi.
La crisi economica generata dal virus sta ridisegnando, inoltre, il profilo del ceto medio, colpendo la vecchia piccola borghesia commerciale e artigianale e alimentando l’incedere di un nuovo ceto medio aspirazionale e metropolitano.
Il restringimento delle abitudini esistenziali ha alimentato, per parte sua, gli istinti sopraffazionali e alcune spirali di violenza di massa (come le maxi risse tra giovani) e di genere nei confronti delle donne (il numero delle chiamate di aiuto al numero anti-violenza e stalking è più che raddoppiato rispetto al 2019).
La pandemia ha ampliato anche le dimensioni e le forme della precarizzazione esistenziale, innescando nuovi livelli di incertezza lavorativa e di instabilità nel futuro. Con lo smart working (o meglio con l’esperienza del telelavoro) si è innescato un processo di trasformazione del senso e del valore del lavoro.
L’esperienza di quest’anno ha agito su tre dimensioni: ha foraggiato la diminuzione del ruolo del lavoro nell’esistenza di molte persone; ha instaurato una nuova forma di divisione orizzontale tra professioni e dentro le stesse occupazioni, tra chi può o non può lavorare da remoto; ha aperto un’epoca di decontestualizzazione della relazione tra impresa e dipendenti.
L’evoluzione delle dimensioni lavorative e relazionali pone nuovi interrogativi e nuove sfide alle amministrazioni locali, sia in termini di ridisegno delle città e dei servizi, sia in ambito di modello di vita urbano, di spazi e di offerte abitative.
Nel nostro paese, sempre in bilico tra innovazione e passatismo, la pandemia ha posto con forza la centralità della digitalizzazione di servizi e imprese; dell’innovazione come àncora permanente del fare impresa e della dimensione relazionale-umanizzata, quale fattore centrale nella costruzione di un clima aziendale produttivo e proficuo.
Nella nuova dimensione esistenziale sollecitata dai lockdown, si sono determinate, nelle persone, trasformazioni del senso di sé marcate da una buona dose di ossimoricità.
Su un versante, sono state favorite, con la virtualizzazione relazionale, nuove forme di reticolarità familiare o amicale e, al contempo, il senso di disorientamento individuale ha innescato la ricerca di un innovato senso di solidarietà e comunità; sul versante opposto, è lievitata la spinta all’enclavizzazione delle coscienze, con la crescita delle forme di diffidenza e intolleranza verso l’altro, nonché la monadizzazione esistenziale, con l’infragilimento delle reti e del capitale sociale individuale.
Tra gli “effetti collaterali” della pandemia si possono annoverare anche il tendenziale ritorno del valore del pubblico, dello Stato e del welfare; il bisogno di un’informazione credibile e di qualità; nonché il valore delle competenze e il ruolo della scienza.
Bisogno di leggerezza
Le chiusure, infine, hanno rallentato temporaneamente la corsa al consumismo sfrenato e posto l’opinione pubblica di fronte al valore di un’economia e di brand più etici e sostenibili, ma allo stesso tempo hanno ingenerato un impulso alla spensieratezza, al bisogno di divertimento e ludicità, alla carnevalizzazione esistenziale.
La difficoltà delle persone a mantenere, in zona gialla, le norme di cautela (mascherine, distanziamento fisico ecc), sono, in parte, il risultato di questo insostenibile bisogno di leggerezza (per dirla alla Kundera), ma sono anche la fotografia di quella dimensione della soggettività contemporanea che, come rifletteva Jürgen Habermas, sembra essere caratterizzata dall’essere figli e figlie di una modernità “senzatetto”, in cui l’attenzione ai diritti di tutti «viene condotta con ragioni insufficienti».
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