La battaglia ai cosiddetti piani alti del capitalismo italiano per il controllo delle Assicurazioni Generali si è conclusa con la sconfitta piuttosto netta, ancorché prevista, degli sfidanti Francesco Gaetano Caltagirone e Leonardo Del Vecchio.

La lista presentata dal consiglio d’amministrazione uscente, espressione della storica controllante Mediobanca, ha ottenuto il voto del 39,6 per cento del capitale sociale, ovvero del 56 per cento delle azioni presenti in assemblea. La lista di Caltagirone e Del Vecchio si è fermata al 29,5 (41,7 per cento delle azioni votanti).

Lo scarto lievemente superiore al dieci per cento mette il risultato al sicuro da possibili contestazioni riguardanti la complessa vicenda delle azioni in affitto. Mediobanca e l’alleato gruppo De Agostini si sono presentate all’assemblea esercitando il diritto di voto di circa il sei per cento complessivo del capitale costituito da azioni prese in affitto, mossa robustamente contestata dagli sfidanti e che avrebbe dato ampio spazio a perplessità qualora la controllante avesse vinto l’assemblea con azioni destinate a passare di mano entro breve tempo.

L’attacco di Caltagirone e Del Vecchio alla plancia di comando delle Generali era iniziato oltre un anno fa e la conferma al vertice dell’amministratore delegato francese Philippe Donnet con il suo piano strategico al 2024 è salutato dai mercati finanziari con favore, in nome della stabilità.

E al sospirone di sollievo collettivo ha dato voce il neo eletto presidente Andrea Sironi 58 anni, che porta con sé l’unico segnale davvero innovativo di una vicenda da Jurassic Park del capitalismo: è il più giovane presidente nella storia delle Generali, è più giovane anche di Donnet e prende il posto di Gabriele Galateri di Genola, 75 anni, da 11 su una poltrona tradizionalmente appannaggio di anziani manager quasi sempre vivaci e combattivi con l’eccezione dello stesso Galateri. «Si chiude una fase molto delicata», ha ammesso il docente di economia finanziaria dell’Università Bocconi.

Viva la stabilità

Gli analisti della banca JP Morgan hanno fatto subito notare che difficilmente i due sconfitti Caltagirone e Del Vecchio usciranno di scena vendendo le loro azioni, cosa che potrebbe provocare una secca perdita di valore del titolo. Con poco meno del dieci per cento a testa, circa tre miliardi di euro investiti per ciascuno, se dessero corso a vendite significative indurrebbero una pesante flessione del prezzo delle azioni Generali.

Secondo JP Morgan, ma è opinione diffusa, lo scenario più probabile è quello di un tentativo di riappacificazione in nome dell’interesse superiore del cosiddetto Leone di Trieste.

Pur sconfitti, i due sfidanti hanno radunato attorno a loro nomi forti del capitalismo familiare italiano, dai Benetton ai Seragnoli, e il loro pacchetto di voti vicino al 30 per cento è potenzialmente in grado di bloccare le deliberazioni delle assemblee straordinarie, necessarie per esempio per gli aumenti di capitale.

Di fatto è possibile una sorta, se non proprio di coabitazione, di gestione consociativa che non sarebbe del resto una drammatica novità visto che Caltagirone è stato fino a poche settimane fa vicepresidente della compagnia. Non è nemmeno da escludere che a Caltagirone, eletto consigliere di minoranza, venga offerta la vicepresidenza come primo segnale di ricucitura.

Proprio nelle prospettive di pacificazione generale si può leggere in trasparenza il vero significato di questa vicenda. Nessuno è riuscito in questi mesi di schermaglie quale fosse l’oggetto del contendere, a parte un luogo comune del capitalismo all’italiana, il potere.

Caltagirone, che ha guidato l’assalto al quartier generale, ha detto che la gestione Mediobanca-Donnet non valorizzava a sufficienza la compagnia assicurativa, in grado secondo lui di perseguire risultati più ambiziosi e dare maggiori soddisfazioni agli azionisti in termini di quotazione del titolo e dividendi distribuiti.

Ma non è riuscito a convincere l’elettorato, costituito quasi completamente da grandi fondi d’investimento italiani e stranieri, per due ragioni. In primo luogo perché le Generali, da anni in declino rispetto ai grandi concorrenti europei (la tedesca Allianza, la svizzera Zurich e la francese Axa), non vanno male con la gestione Donnet e l’argomento che potrebbero andare meglio non è dirompente.

In secondo luogo perché l’unico suo argomento forte, espresso in modo felpato ma rozzamente riassumibile nell’abuso da parte di Mediobanca dei cosiddetti benefici privati del controllo, che significa subordinare gli interessi della società controllata a quelli dell’azionista di controllo. Ma qui la apparente democrazia finanziaria che si celebra con il voto degli azionisti lascia il posto alle logiche di potere del capitalismo di relazione.

Basta un solo dato, la lista di Assogestioni, che riunisce i fondi comuni d’investimento italiani, ha preso solo l’1,45 per cento dei voti perché i suoi associati (circa il 20 per cento del capitale) hanno votato quasi in blocco per la lista Mediobanca.

Vero che anche molti fondi stranieri hanno scelto la continuità ma è altrettanto vero che i gestori dei fondi italiani, formalmente indipendenti, sono quasi tutti subordinati di fatto alle logiche di potere relazionale che dominano il sistema finanziario italiano. Del resto proprio un mese fa è stato eletto presidente di Assogestioni Carlo Trabattoni, un manager delle Generali, cioè un dipendente di Donnet.

La pace necessaria

In termini di lotta di potere dunque il numero uno di Mediobanca Alberto Nagel non può che perseguire un disegno di pacificazione con Caltagirone e Del Vecchio.

Nello stagno che è ormai diventato il capitalismo italiano fa spicco il fatto, apparentemente paradossale che il patron della Luxottica è con il 20 per cento del capitale il primo azionista di Mediobanca. E nessuno può escludere che dopo la sconfitta di ieri possa decidere di portare l’attacco direttamente al piano superiore della catena di controllo delle Generali.

 

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