- l 48 per cento degli italiani (con una punta del 17 per cento altamente convinta) ritiene che per cambiare le cose nel nostro paese sia necessario ricorrere a forme di protesta dure seguendo l’esempio francese
- Ad alimentare la proliferazione della rabbia sociale e della volontà di protesta sono diversi fattori: al primo posto troviamo il tema dell’aumento dei prezzi (53 per cento)
- Al secondo posto troviamo la perdita di potere di acquisto degli stipendi (32 per cento). Il terzo elemento che foraggia i processi di rancore e rabbia è quello indotto dalla precarizzazione del lavoro (29 per cento)
La tensione sotto la cenere. Giovani, periferie, studenti, autonomi, ceti popolari sono i segmenti in cui la crisi morde il freno e le pulsioni ribelliste si stanno alimentando. Fare come in Francia è uno slogan che scorre silenzioso tra le persone e negli anfratti della nostra società. Il 48 per cento degli italiani (con una punta del 17 per cento altamente convinta e determinata) ritiene che per cambiare le cose nel nostro paese sia necessario ricorrere a forme di protesta dure seguendo l’esempio dei cugini d’Oltralpe.
Ardore ribelle
A essere particolarmente attratti dall’idea di ribellarsi sono, innanzitutto, i giovani della generazione Z (60 per cento) e i millennial (59 per cento), nonché i lavoratori autonomi (60 per cento). Il cuore pulsante dell’ardore protestatario lo ritroviamo, in primo luogo, nelle periferie urbane (58 per cento) e nelle grandi città (56 per cento).
I processi di radicalizzazione che albergano nell’animo depresso e colpito dalla crisi in atto partono dai ceti popolari (50 per cento), per estendersi agli studenti (58 per cento), ai piccoli imprenditori artigiani e commercianti (60 per cento), agli operai e ai lavoratori dipendenti (53 per cento). Le spinte ribelliste, l’ardere di una tensione che nel nostro paese non è ancora esplosa in modo manifesto ma di cui si avvertono le braci, è un tratto non secondario nella percezione della situazione sociale.
Il 61 per cento dell’opinione pubblica ritiene, infatti, che nel proprio territorio sia in crescita la tensione sociale. Ne avvertono maggiormente il sentore i millennial (71 per cento), i residenti a nord est (68), chi vive nelle grandi città (68), le persone che risiedono nelle periferie urbane (65) e nelle zone semi-centrali delle aree urbane (66), nonché gli appartenenti ai ceti popolari (68), i lavoratori autonomi (74), gli studenti (69). A alimentare la proliferazione della rabbia sociale e della volontà di protesta sono diversi fattori, che fungono da detonatori nelle diverse categorie sociali. Al primo posto troviamo il tema dell’aumento dei prezzi (53 per cento).
Un tema che colpisce e alza la pressione protestataria, soprattutto, nelle periferie urbane (64 per cento) e tra i ceti popolari (58 per cento).
Al secondo posto (e come diretta conseguenza del primo fattore scatenante) troviamo la perdita di potere di acquisto degli stipendi (32 per cento). Un elemento che sobilla gli animi dei residenti del nord est (46 per cento), di quanti abitano nelle aree urbane semi periferiche (37 per cento) e nelle periferie (35 per cento), degli operai (41 per cento) e delle casalinghe (40 per cento).
Il terzo elemento che foraggia i processi di rancore e rabbia è quello indotto dalla precarizzazione del lavoro (29 per cento). Un fattore avvertito prioritariamente dai giovani della generazione Z (34 per cento), dai genitori (38 per cento), dai residenti a centro nord (35 per cento) e dagli studenti (41 per cento).
Mancanza di prospettive
La presenza di troppi immigrati è un argomento che crea nervosismo nel 26 per cento degli italiani. L’inquietudine coglie la generazione X (32 per cento), i residenti a nord ovest e nord est (31 per cento), i residenti delle città medie (31), quelli delle periferie urbane (36) e il ceto medio (30). A generare animosità, infine, è la mancanza di prospettive per i giovani (25 per cento). Aspetto che coinvolge, in primis, i ragazzi e le ragazze della generazione Z (34 per cento) e i loro genitori (35 per cento), quanti vivono nelle grandi città (31 per cento), gli studenti (44 per cento) e il ceto medio (33 per cento). A preoccupare l’opinione pubblica, in questa fase, non sono tanto gli scioperi (36 per cento), quanto il rischio di disordini sociali.
Una prospettiva che genera apprensione nel 53 per cento degli italiani, specie al centro sud (55 per cento), nelle isole (61 per cento), tra i residenti nelle zone centrali delle città (64 per cento) e nel ceto popolare (65 per cento).
Le dinamiche in atto e le pulsioni sotterranee che si possono osservare, evidenziano che la polifonia delle crisi in cui siamo avvolti non genera per ora processi aggregativi o vasti movimenti di protesta e riforma, ma rischia di decomporre ulteriormente gli attori sociali e, al contempo, di far degradare le tensioni in rabbia fine a se stessa. Il rischio che si paventa è quello di deflagrazioni improvvise e virulente, con lo scatenarsi delle pulsioni protestarie sui simboli del potere e della ricchezza.
Scoppi che non originano processi propositivi, costruttivi e riformatori, ma rischiano di rimanere atti meramente distruttivi, espressione della frustrazione, del senso di furore impotente di alcuni segmenti sociali di fronte ai mutamenti dell’epoca.
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