Secondo il 64 per cento degli italiani le differenze di sviluppo tra le due aree negli ultimi anni sono aumentate. Per far ripartire il mezzogiorno servono valorizzazione dell’occupazione giovanile, stimolo dell’occupazione femminile, riconoscimento del merito
Sud chiama nord. Ma le due aree del paese continuano a non dialogare. Quasi un secolo fa Antonio Gramsci scriveva le note sulla questione meridionale con la consapevolezza che il processo risorgimentale si era risolto con un bilancio in deficit per il sud. Nei Quaderni, Gramsci, punta anche a disincagliare gli stereotipi che dipingevano il sud come una “palla al piede”.
Cento anni dopo la questione meridionale è ancora lì, ferma e presente. I dati dell’osservatorio Fragilitalia del centro studi Legacoop e Ipsos hanno appena fotografato l’accentuarsi del divario nord-sud. Secondo il 64 per cento degli italiani (69 per cento al sud) le differenze di sviluppo tra le due aree negli ultimi anni sono aumentate.
Le tensioni sociali
Un dato che sembra destinato a permanere anche nei prossimi anni. Per il 60 per cento dei residenti al sud, infatti, la frattura non è indirizzata a rimarginarsi. All’origine di questa divaricazione c’è sempre l’alto dislivello di opportunità per il 68 per cento dei residenti nelle regioni meridionali.
Rispetto a cento anni fa, tuttavia, un piccolo mutamento c’è stato. Solo il 35 per cento degli italiani ritiene il sud una “palla al piede” per lo sviluppo del paese. Il divario di crescita non è indolore e ha molteplici effetti. Il 31 per cento dei residenti al sud (rispetto al 24 per cento del nord) avverte uno stato permanente di tristezza. Il 18 per cento nel mezzogiorno, rispetto al 15 nel nordest, segnala pulsioni rabbiose.
Il 31 per cento dei cittadini del sud, rispetto al 25 per cento del nordest, avverte la propria realtà come periferica e lontana dai grandi movimenti. Il vero effetto dirompente della faglia, però, si registra sul tasso di tensione sociale. Le braci sotto la cenere sono calde per il 46 per cento al nord, mentre volano al 63 per cento nel Mezzogiorno.
La possibilità di disordini sociali passa dal 29 del nordest al 44 per cento nelle regioni del sud. I nemici dello sviluppo del sud sono molteplici e, in parte, sempre gli stessi: mafie, criminalità e corruzione (40 per cento); lavoro nero (37); clientelismo (29); mancanza di investimenti statali (28); inadeguatezza delle reti infrastrutturali (27); manchevolezza della classe politica locale, evasione fiscale e burocrazia (26); inadeguatezza delle politiche a sostegno dei giovani (23); mancanza di capitali e assenza di servizi alle famiglie (20); nonché inidoneità delle politiche a sostegno delle donne (15).
Ripartire
La strategia per far ripartire il mezzogiorno e iniziare a colmare i gap si fonda, secondo i residenti in queste regioni, su: valorizzazione dell’occupazione giovanile (53 per cento), stimolo dell’occupazione femminile (39), riconoscimento del merito (45) e sviluppo dei servizi di welfare (36).
Dal punto di vista degli investimenti, per chi vive nel mezzogiorno si deve puntare su: sanità (50 per cento), sviluppo delle infrastrutture (50), attrazione di investimenti e imprese (46), sviluppo dell’attività ricettiva e turistica (46), tutela dell’ambiente e del territorio (36), sviluppo delle infrastrutture digitali e della rete telematica (24) e strategia di sostegno alla transizione green delle imprese (25).
Plurimi sono gli ambiti in cui il sud può rappresentare un traino per lo sviluppo economico del paese (e di alcuni sono coscienti anche i residenti del nord). Ne sono un esempio turismo e cultura (66 per cento tra i residenti al sud e 72 tra quelli del nord); l’industria agroalimentare (51 per cento sia per quanti vivono al nord sia per quelli del sud); i rapporti commerciali con i paesi dell’area del Mediterraneo (40 per cento al nord e 38 al sud).
Oltre a questi ambiti, secondo i residenti nel Mezzogiorno, i loro territori potrebbero giocare un ruolo fattivo anche nella transizione alla green economy (24) e nei processi di innovazione tecnologica e ricerca scientifica (23).
Un modello sbagliato
La questione meridionale, per come la conosciamo oggi, è figlia del modello di sviluppo che ha contraddistinto l’economia italiana nell’ultimo secolo, portando con sé e alimentando divaricazioni di natura strutturale fondate sul dualismo tecnologico, retributivo e formativo.
Un modello che ha generato al sud danni sia sul piano ambientale (con il deturpamento di parti del territorio), sia dal punto di vista economico, con forme di dispossession e accumulazione estrattiva (che hanno impoverito il capitale sociale e umano di questi territori).
Una nuova strategia di sviluppo per il sud, quindi, non può iniziare che dal negare il modello degli ultimi 50 anni e puntare a uno sviluppo locale armonico con l’ambiente, capace di sedimentarsi e alimentare una crescita locale non estrattiva, partendo da giovani e donne e dalla valorizzazione del capitale sociale locale.
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