Il tema dell’immigrazione e quello del mercato sono fortemente connessi. L’andamento demografico impone di ragionare su come la manodopera venuta dall’estero possa evitare il blocco dell’economia
Il tema dell’immigrazione e quello del mercato del lavoro sono fortemente connessi da molteplici punti di vista. Non soltanto perché la quota di lavoratori stranieri nei paesi occidentali, Italia inclusa, è crescente. Non soltanto per una certa retorica, spesso utilizzata per avallare disparità di trattamento, secondo la quale i lavoratori stranieri farebbero quello che i lavoratori italiani non vorrebbero più fare.
Ma anche e soprattutto perché l’andamento demografico impone – e questa sembra una consapevolezza sempre più condivisa – di porsi seriamente il problema di come introdurre forza lavoro straniera per evitare che la crisi dell’offerta blocchi l’economia del paese.
Già oggi contribuisce in larga misura a limitare le conseguenze dello svuotamento delle coorti anagrafiche più giovani. Questo soprattutto nei territori con maggior domanda di lavoro, in tutti i settori economici. Complessivamente i lavoratori stranieri in Italia, in aumento nell’ultimo decennio, sono oggi 2,4 milioni, poco più del 10 per cento degli occupati complessivi.
Lavoro non qualificato
Quello che però è utile osservare, per capire meglio la qualità di questo lavoro, è che se l’occupazione straniera nelle professioni tecniche e qualificate è pari a circa il 2 per cento del totale, sale a quasi un terzo nel lavoro non qualificato.
Ulteriore polarizzazione emerge rispetto al tema del lavoro povero, con i lavoratori stranieri al 28 per cento rispetto al 9 per cento degli italiani. Questo unicamente perché mancano le competenze? Non sempre. Se consideriamo, per esempio, la quota di lavoratori stranieri sovraqualificati, ossia coloro che hanno un livello di istruzione terziaria ma che sono impiegati in occupazioni poco o mediamente qualificate, i risultati sono preoccupanti. Infatti la media europea di sovraqualificati tra i lavoratori provenienti da paesi non Ue è del 39 per cento ma in Italia questa cifra raggiunge il 68 per cento, secondi solo alla Grecia al 74 per cento e seguiti dalla Spagna al 57,5 per cento.
Questi dati, ai quali potremmo aggiungerne altri, a partire da quelli sul lavoro irregolare, non sono utili solo per descrivere le condizioni di svantaggio dei lavoratori stranieri. Sono dati che ci dicono molto sul punto a cui siamo rispetto ai processi di integrazione, con particolare riferimento al mercato del lavoro. Il rischio che i dati sottolineano è quello di accrescere la quota di lavoro povero, occupato in settori a basso valore aggiunto, nonché comprimere i consumi interni in modo crescente.
La valorizzazione delle competenze già presenti dovrebbe essere il primo passo, ma richiede processi di integrazione e inclusione che sono preliminari alle diverse procedure di riconoscimento dei titoli di studio già previste, che possono essere migliorate. Considerando i fabbisogni differenti dei diversi territori e delle diverse filiere produttive non si può non pensare che questo debba essere uno degli ambiti centrali per queste politiche di integrazione.
Capitale umano
Le imprese ne hanno tutto l’interesse, i territori anche per attrarre persone e per qualificare il capitale umano affinché sia possibile introdurre processi di innovazione e attrazione di investimento, questo attraverso attività di formazione e riqualificazione che abbiano come obiettivo anche quello di far emergere le competenze presenti.
A questo occorrerebbe aggiungere una maggior autonomia dei settori produttivi, dei territori e delle filiere, anche con un ruolo centrale delle parti sociali, nella gestione dei flussi in ingresso, che andrebbero regolati anche in base ai percorsi di integrazione e programmati.
Senza tutto questo a perderci non saranno solo i lavoratori stranieri, con i più competenti e che vivono un disagio minore che comunque emigreranno verso altri paesi europei, ma l’equilibrio sociale ed economico complessivo del paese.
Più lavoratori poveri, meno valore aggiunto, livelli del capitale umano calanti anche perché sottoutilizzati, invecchiamento della popolazione e poco ricambio di competenze nuove. Perché questo non accada occorrono però investimenti forti, non solo da parte dello Stato, ma di tutti gli attori interessati, in una prospettiva di lungo e medio termine, entro la quale si giocano sia le dinamiche demografiche sia quelle migratorie.
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