Gli imputati di bancarotta fraudolenta erano 22, tutti ex consiglieri d'amministrazione o sindaci revisori o dirigenti della defunta piccola Banca Etruria, simbolo popolare della grande crisi bancaria. Ieri il tribunale di Arezzo, in primo grado, li ha assolti tutti, a cominciare dall'ultimo presidente Lorenzo Rosi, «perché il fatto non sussiste».

Sorgerebbe spontanea la domanda: ma allora chi ha scassato Banca Etruria? Ma è la domanda sbagliata. In un sistema in cui le banche non possono fallire per definizione, perché cercare i responsabili di un fallimento che non è avvenuto? Protestano contro l’assoluzione i comitati dei risparmiatori truffati con le famigerate obbligazioni subordinate, oltre 200 milioni di euro per la sola Banca Etruria. Ma è una protesta a vuoto. Nel processo di Arezzo non si parlava di subordinate. L’accusa verteva su alcuni prestiti a clienti, poi rivelatisi insolventi, che avrebbero contribuito al crac per 200 milioni.

Peccato che al momento della cosiddetta “risoluzione”, 22 novembre 2015, quella con cui furono azzerate le azioni e le obbligazioni subordinate, le sofferenze di Etruria fossero pari a 2,4 miliardi. Insomma, il processone di Arezzo, con ben duemila parti civili, non è stato il processo al crac Etruria ma a un aspetto parziale della vicenda che comunque poco spiega del disastro aretino.

La sentenza di Arezzo

Ci sono dunque due ragioni per cui la sentenza di Arezzo è importante. La prima è che illumina la difficoltà della magistratura a gestire i reati bancari. Sono rari i magistrati con competenza adeguata. Normalmente chi indaga, individua le ipotesi di reato e le indica alle procure della Repubblica corredandole di prove sono gli ispettori della Banca d’Italia. I quali però agiscono in un evidente conflitto d’interessi.

La Banca d’Italia svolge infatti il doppio ruolo di vigilanza da una parte e di regia del sistema dall’altro. Da ciò sono nati una serie di processi nati storti che hanno deluso le aspettative della piazza in attesa di giustizia per i risparmi perduti. Alla piazza nessuno dice la verità: le banche, anche se in mano a presunti delinquenti, sono saltate quasi sempre come conseguenza della logica di sistema per cui le banche “non devono fallire”. Con una doverosa precisazione: se le varie Etruria fossero fallite nel vero senso parola i danni per i risparmiatori e tutta l’economia sarebbero stati dieci o cento volte maggiori.

Ma il punto è proprio il conflitto d’interessi della Banca d’Italia. Punto primo: la Vigilanza dà ordini alla banca vigilata, e le impone i correttivi alle situazioni critiche individuate dalle ispezioni. Ma se, a valle delle operazioni sollecitate da Bankitalia, la banca va a gambe all’aria lo stesso, che senso ha accusare di bancarotta fraudolenta gli amministratori che hanno obbedito agli ordini? Nel caso di Etruria gli ispettori Bankitalia fanno emergere un livello di sofferenze (crediti inesigibili) crescente, ordinando ogni volta accantonamenti prudenziali pesantissimi.

Gli accantonamenti mangiano il capitale, che però, secondo le regole prudenziali di Bankitalia, il capitale deve risalire per garantire la stabilità della banca. Quindi l’istituto scassato è invitato a reperire nuovo capitale che però il mercato finanziario concede solo a tassi altissimi. Allora il sistema inventa in ricorso alle obbligazioni subordinate, assimilate al capitale di rischio, che infatti gli investitori professionali schifano ma Bankitalia e Consob di fatto lasciano piazzare al cosiddetto retail, i risparmiatori ignari indotti a credere che sia un investimento sicuro.

A dicembre 2013 il governatore Ignazio Visco scrive alla Banca Etruria che le ispezioni hanno accertato uno stato di “degrado irreversibile”, ma la lettera viene segretata per non turbare il collocamento delle subordinate. E per questo è in corso solo un marginale processo ad alcuni sportellisti di Etruria accusati di aver ingannato i clienti.

Così, accantona e ricapitalizza, ricapitalizza e accantona, Etruria è saltata mentre, secondo i parametri Bankitalia, scoppiava di salute: i crediti deteriorati vantavano un tasso di copertura del 68 per cento (68 euro accantonati ogni cento di probabile perdita) quando la media delle banche italiane era attorno al 45 per cento. In tutto questo probabilmente non c’è nessun reato e comunque non saranno certo i magistrati a spiegarcelo, visto che in fondo non ne sanno niente.

 

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