I dati dell’Osservatorio sulle migrazioni mostrano che le donne immigrate sono doppiamente svantaggiate sul mercato del lavoro, per il proprio genere e per la provenienza. L’Italia si dimostra ultima per politiche di integrazione, di cui beneficerebbero anche i nativi.
- Donne e migranti sono tra i gruppi più svantaggiati sul mercato del lavoro in tutta Europa
- Alcuni paesi, però, riescono a sfruttare al meglio chi arriva dall’estero, attirando lavoratori laureati e specializzati
- In Italia, politiche di integrazione di basso livello fanno sì che arrivino solo migranti che facciano i “lavori che gli italiani non vogliono più fare”
In Italia e in Europa, è noto, nonostante molti passi avanti fatti negli anni (soprattutto in Europa e meno in Italia), nascere donna continua ad essere uno svantaggio sotto molti punti di vista, a partire dal lavoro. Per tutta una serie di ragioni, dal razzismo alla scarsa capacità di integrazione (soprattutto in Italia), anche gli stranieri, in particolare quelli dai paesi meno sviluppati, tendono a subire un trattamento simile.
Alla luce di queste realtà, immaginate cosa voglia dire essere donna e immigrata in Europa e in Italia. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, il sesto Osservatorio sulle migrazioni, realizzato da Tommaso Frattini e Irene Solmone per il Centro Studi Luca D’Agliano e il Collegio Carlo Alberto di Torino, offre molte risposte interessanti sul tema. Il rapporto mette insieme alcuni dati sui numeri, l’occupazione e la posizione nella distribuzione dei redditi degli stranieri in Italia e in Europa, per poi concentrarsi sulla condizione delle donne immigrate.
Guardando all’Europa, le caratteristiche delle donne immigrate sono molto promettenti: quelle che si sono fermate alla scuola media sono il 34 per cento (dati 2019), contro il 35 per cento degli uomini immigrati, mentre quelle con una laurea sono il 31 per cento, un valore addirittura superiore a quello della media degli uomini nativi e di 3 punti percentuali superiore a quello degli uomini immigrati. Il dato non è alto solo per le donne europee che sono immigrate in un altro paese Ue (che definiremmo “expats” e che sono per il 36 per cento laureate), ma anche per quelle che hanno origine in altre aree del mondo: un’immigrata su quattro proveniente da Medio Oriente, Nord Africa ed Europa non-Ue (principalmente paesi dell’Est, come l’Ucraina) ha una laurea, e addirittura una su tre tra quelle che provengono dall’Asia, dalle Americhe e dall’Oceania.
Come spesso accade, però, a risultati migliori sui banchi non corrispondono condizioni migliori sul mercato del lavoro. Nonostante abbiano un’istruzione più elevata rispetto agli immigrati uomini, le donne hanno una probabilità di essere occupate di 17,5 punti percentuali inferiori agli uomini stranieri a livello europeo. Inoltre, il rischio per le donne immigrate di finire nel 10 per cento più povero della distribuzione dei redditi è pari a 18,4 per cento, contro il 10,9 per cento delle donne native e il 4,9 per cento degli uomini stranieri.
Il risultato di questo divario, come nel caso del gap tra uomini e donne in generale, è dovuto in larga parte alla segregazione in lavori poco remunerativi e che richiedono poche competenze. Il 18 per cento delle donne immigrate lavora come aiuto domestico, governante o addetta alle pulizie di uffici e hotel e un altro 7,8 per cento è composto da lavoratrici per la cura della persona in strutture sanitarie. Per fare un confronto, il settore più comune in termini percentuali tra gli uomini nativi è quello dei tecnici scientifici, ingegneristici o fisici.
E l’Italia?
A fronte di questi dati poco confortanti per l’Europa, non se ne trovano certo di migliori guardando ai numeri per il nostro paese. Partendo dall’istruzione, mentre il numero di immigrati con una laurea è cresciuto nel tempo in Unione europea, in Italia è rimasto sostanzialmente fermo. Nel 2005, le donne immigrate laureate erano in percentuale più di quelle native, mentre i laureati tra gli uomini stranieri erano più o meno in linea con i nativi. Mentre sempre più cittadini italiani hanno completato l’università, però, la quota di stranieri è rimasta ferma al palo. Questo dato è importante per due motivi: per prima cosa, ci confermiamo sempre meno in grado di attirare migranti qualificati (la quota di stranieri con licenza media è invece aumentata, soprattutto tra gli uomini); in secondo luogo, le nostre politiche non sono per niente efficaci nell’integrare gli stranieri e nello spingerli verso un aumento delle proprie competenze. Mentre in Europa i migranti arrivano, cominciano a lavorare in impieghi a bassa competenza e poi nel tempo migliorano il proprio capitale umano e la propria posizione lavorativa, in Italia nulla cambia.
Anche guardando al rischio povertà, più di una donna immigrata su quattro (27,5 per cento) in Italia si trova nel 10 per cento più povero della popolazione e solo l’1,9 per cento è nel 10 per cento più ricco. Questo nonostante una probabilità di essere occupate rispetto alle donne native di soli 7 punti percentuali inferiore. Il motivo di un tale sbilanciamento nella distribuzione dei redditi è ancora una volta legato alla segregazione in occupazioni poco remunerative: una donna immigrata su tre, infatti, fa un lavoro che richiede competenze elementari e un altro 37 per cento ha un impiego non manageriale nel settore dei servizi e delle vendite.
Un tale squilibrio non è ingiusto solo per gli stranieri, in particolare le donne, che arrivano nel nostro paese con la speranza di trovare una vita migliore e la possibilità di utilizzare l’ascensore sociale, ma è anche uno dei tanti segnali di stagnazione del nostro paese, dove pochi stranieri qualificati hanno voglia di migrare e in cui non siamo in grado di far crescere a livello sociale e professionale le nostre risorse, rilegandole a tempo indeterminato nei famosi “lavori che gli italiani non vogliono più fare”.
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