Il 30 settembre, Eurostat ha pubblicato una mappa con un dato che ha fatto molto discutere: nel 2050, il rapporto tra la popolazione in età lavorativa (15-64 anni) e quella anziana (over 65), sarà superiore al 50 per cento in tutta Italia e in una larga parte dell’Europa occidentale. Secondo l’istituto di statistica europeo, infatti, già nel 2035 questo rapporto sarà pari al 50,3 per cento in Italia, contro il 34,8 per cento del 1990 e il 36,4 del 2020. Questo significa che per ogni over 65 ci saranno solo due persone in età lavorativa.

Nel 2050, il tasso di dipendenza degli anziani sarà pari al 61,5 per cento e gli over 65 rappresenteranno il 33,3 per cento della popolazione, di cui più del 40 per cento avrà almeno 80 anni (13,7 per cento della popolazione totale). Va considerato, inoltre, che gli adulti al lavoro dovranno anche garantire il benessere dei minori, in particolare di coloro che hanno meno di 15 anni, che nel 2050 rappresenteranno l’11,5 per cento della popolazione. In definitiva, la popolazione in età lavorativa sarà solo il 56,2 per cento del totale, contro il 68,6 del 1990 e il 63,7 del 2020. L’età mediana, già oggi la più alta in Unione Europea (47,2 anni), crescerà nel 2050 a 51,6 anni. Il 50 per cento degli italiani, insomma, avrà più di 50 anni.

L’invecchiamento di un paese rappresenta una sfida economica e sociale molto ostica per numerose ragioni. Innanzitutto, una popolazione che invecchia è una popolazione che ha bisogno di maggiori cure, che diventano sempre più costose con l’emergere di malattie croniche legate alla vecchiaia. Per quanto la cosiddetta silver economy possa rappresentare un’opportunità per alcuni settori, in particolare quelli di assistenza e di cura, è chiaro che una buona parte della spesa ad essa legata arriverebbe dal sistema di welfare garantito dai contribuenti, con uno impegno importante delle finanze pubbliche. Un maggior numero di anziani, poi, comporta un aumento della spesa pensionistica. Secondo i dati Ocse, l’Italia spendeva l’11,3 per cento del proprio Pil in pensioni nel 1990, un dato salito al 15,6 per cento nel 2017 e che, secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, arriverà fino al 17,9 per cento nel 2035, prima di cominciare un lento calo.

Numerosi studi, inoltre, mostrano come le persone più anziane tendono a investire meno e che i paesi e le società che invecchiano tendono ad essere meno innovative e più avverse al rischio, un fattore che riduce il progresso tecnologico e la creazione di imprese.

C’è poi l’importante capitolo della produttività: con il passare degli anni, i lavoratori e le società che invecchiano tendono ad essere meno produttivi, sia perché i più anziani cominciano a perdere la propria energia, sia perché non riescono a stare al passo con l’evoluzione delle competenze richieste per svolgere i lavori più innovativi, che di soliti sono anche quelli che registrano una crescita più elevata della produttività.

L’immigrazione come possibile soluzione

Le previsioni Eurostat partono da uno scenario di base, ma offrono anche diverse possibilità di evoluzione a seconda di come muterà il contesto italiano ed europeo nel corso degli anni. Sono disponibili, per esempio, previsioni in uno scenario di minore mortalità e fertilità, ma soprattutto sono state fatte delle previsioni in base all’andamento dei flussi migratori, sia in entrata che in uscita. Da una parte, infatti, le forti pressioni migratorie, in particolare dai paesi in via di sviluppo, costituiscono un’opportunità per aumentare la popolazione in età lavorativa (i migranti difficilmente hanno più di 40 anni) e la natalità; dall’altra, la cosiddetta fuga di cervelli porta le ragazze e i ragazzi italiani ad emigrare all’estero, riducendo la popolazione giovanile, oltre che lo stock di capitale umano. In uno scenario di maggiore immigrazione netta (che può crescere sia con l’aumento di coloro che arrivano che con la riduzione di chi parte), ossia con un aumento del 33 per cento rispetto allo scenario di base, l’età mediana in Italia nel 2050 passerebbe da 51,6 a 50,8 anni, mentre crescerebbe a 52,7 nel caso di una riduzione del 33 per cento dell’immigrazione netta. Il dato più interessante è che, in assenza di migrazione, l’età mediana salirebbe a 55,2 anni.

Nonostante il possibile miglioramento che deriverebbe da un saldo maggiore per le migrazioni nette, è evidente che questa soluzione non è abbastanza per portare l’età mediana della popolazione ai livelli del 1990 (36,9 anni) o anche solo a quelli del 2011(43,7). Le conseguenze economiche dell’invecchiamento possono essere in parte risolte ricorrendo all’automazione, che può ridurre la dipendenza da una forza lavoro che si sta restringendo e può garantire una robusta crescita della produttività in determinati settori. Ma non tutti i lavori si possono automatizzare e, almeno per il momento, l’innovazione dipende fortemente dalla presenza di una società giovane e dinamica, oltre che dalla creatività e dalla capacità intellettuale. Le soluzioni a questo problema, come le politiche per favorire la natalità, non sono semplici, non sono a costo zero e nella maggior parte dei casi non forniscono risultati immediati, ma il calo demografico e l’invecchiamento della popolazione devono essere trattati per quello che sono: un’ipoteca sulla crescita e sullo sviluppo della nostra società.

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