Ora che cominciano ad arrivare i primi dati economici su come i governi hanno risposta agli enormi danni causati dal Covid-19, la situazione per le famiglie italiane appare fra le peggiori nelle nazioni avanzate. Da un lato tutte le grandi economie occidentali si sono contratte, né poteva essere altrimenti data la gravità della crisi sanitaria, dall’altro sono state predisposte una serie di misure volte ad ammorbidire il colpo.

Stato che vai

Gli stati si sono indebitati per fare fronte all’emergenza, e hanno usato queste risorse in vari modi. Ma con quali effetti?

A fronte di un calo massiccio dell’attività economica, nella prima metà del 2020, in molte nazioni il reddito delle famiglie ha tutto sommato retto. A volte anzi è persino cresciuto, paradossalmente, grazie alle politiche di sostegno dei redditi: è stato il caso degli Stati Uniti, o del Canada. In Italia è andata all’opposto. Nei mesi in cui l’economia crollava come non si vedeva dai tempi della seconda guerra mondiale, anche i redditi delle famiglie sono andati a picco. Dati compilati dall’Ocse mostrano che nei primi due trimestri 2020 il reddito delle famiglie è andato giù del 7,2 per cento.

Più del doppio di quanto è successo nel Regno Unito, per citare un caso, che pure è stata fra le nazioni dove i bilanci familiari hanno sofferto di più. Poi a scendere troviamo Francia e Germania dove le misure sono state in grado di contenere i danni a uno o due punti, per arrivare appunto al nord America in cui le famiglie hanno visto addirittura crescere, in media, il proprio reddito del 10 per cento e più rispetto al periodo precedente. Negli Stati Uniti, spiegano gli economisti dell’Ocse Andrea Garnero e Andrea Salvatori, è successo questo perché fra l’altro il sussidio di disoccupazione è stato aumentato temporaneamente di 600 dollari a settimana, con un trasferimento aggiuntivo di 1.200 dollari per tutti coloro che guadagnano meno di 75mila dollari.

Le spiegazioni del cattivo risultato italiano possono essere diverse, ma secondo i due studiosi «non sembra esserci un problema di quantità di risorse: nel complesso, l’Italia ha speso quanto e più di altri paesi Ocse» mentre «la grossa mole del debito italiano non sembra aver rappresentato un freno rispetto alle spese necessarie per far fronte alla pandemia». I dati Eurostat mostrano che il debito sul Pil italiano nel 2019 era già il secondo più elevato dopo il greco, e nella prima metà del 2020 fra quelli cresciuti di più. Nell’Ue in media in quei mesi è salito di circa 10 punti, in Italia di quasi 15. Allo stesso tempo in termini assoluti il debito italiano è aumentato di 121 miliardi contro i 221 tedeschi e 258 francesi.

Si tratta però di nazioni dove però la situazione di partenza era molto più favorevole della nostra. Prima dell’arrivo dell’epidemia il debito tedesco era al 60 per cento del Pil, quello francese al 95 per cento, mentre in Italia supera il 132 per cento ormai da anni senza particolari segni di calo.


A chi sono andati gli aiuti in Italia

Le risorse sono fondamentali, ma altrettanto importante è poi andare a guardare come vengono usate. Il nostro paese ne ha investite molte nella cassa integrazione, che però copre una parte del salario spesso più bassa che altrove: leggermente meno che in Spagna, molto meno che Germania o Francia, e persino del Regno Unito dove questo strumento prima dell’epidemia neppure esisteva. È allora possibile, sottolineano Garnero e Salvatori, che «nonostante i fondi stanziati per coprire un numero di imprese e lavoratori più elevato che in altri paesi, essa abbia comunque lasciato spazio a una significativa riduzione del reddito delle famiglie».

Meglio sembrano essere andate le misure dirette ai lavoratori autonomi, che secondo stime del Ministero dell’economia hanno portato a un calo dei redditi familiari minore di quanto è successo per i dipendenti. Un altro elemento da tenere a mente, ricordano gli economisti, è il ruolo del sommerso. Se lo stato non sa esattamente chi guadagna e quanto, nel momento in cui lavoro nero e redditi non dichiarati sono diffusi, predisporre politiche mirate diventa particolarmente complicato. Una soluzione potrebbe essere un trasferimento universale, come i 1.200 dollari americani, che però a quel punto finirebbero anche a ricchi ed evasori: quindi non è affatto ovvio che siano ben visti dalle persone.

Il problema di come vengono impiegate le risorse, oltre al loro numero, diventa allora cruciale. Un’analisi dell’istituto europeo di statistica ha cercato di capire chi ha beneficiato di più fra i dipendenti delle misure di sostegno ai redditi, trovando che l’Italia è stata fra i pochissimi dove le risorse sono finite più alla classe media che ai poveri.

Di solito questo genere di provvedimenti tendono a essere indirizzati verso le fasce più deboli: è a loro che dovrebbe andare la parte principale del sostegno. Ma lo stato sociale italiano invece finisce spesso per indirizzarle altrove, verso chi ne ha meno bisogno, in maniera inefficiente e ingiusta per lo scopo che si propone.

«È un problema strutturale del nostro sistema di welfare», ci dice Garnero, «storicamente poco indirizzato verso chi ne ha bisogno. L’Italia è un paese alla rovescia. Secondo una ricerca dell’Ocse ai più poveri va l’8 per cento dei trasferimenti monetari, ai più ricchi il 43 per cento. Con il reddito di cittadinanza la situazione sarà un po’ migliorata. Ma anch’esso esclude molti poveri e include altri che, almeno dal punto di vista statistico, poveri non sono». E in effetti lo studio sottolinea che, fra le dodici nazioni studiate, le famiglie composte da disoccupati o persone a basso reddito in Italia sono quelle che più di rado hanno accesso a un qualche genere di sostegno.

Eppure sono proprio queste persone che non solo erano più in difficoltà prima, ma sulle quali sta ricadendo ancora una volta – era già successo durante la grande recessione del 2008 – buona parte del peso della crisi economica. Secondo un’analisi preliminare dell’istituto europeo di statistica, infatti, il rischio di perdere il lavoro è stato maggiore per chi ha un contratto a termine, giovani under 25, impiegati in occupazioni low skill. Coloro che lavoravano in settori chiusi e non hanno avuto la possibilità di riconvertirsi al lavoro da casa, che hanno ricevuto ristori insufficienti o proprio niente. Occupati e occupate nella ristorazione e nei servizi alberghieri, oppure nel turismo.

Lo stesso studio mostra anche che la probabilità di vedere ridotte le proprie ore lavorative o essere licenziati cala in funzione inversa del reddito: chi guadagna di più tende a conservare spesso il proprio lavoro, e viceversa.

L’effetto sul mercato del lavoro

A questo si aggiunge che gli effetti della pandemia sul lavoro non sono sempre semplici da interpretare. È stato un evento talmente repentino e inaspettato che persino alcuni indicatori che usiamo di solito per capire come vanno le cose non funzionano più tanto bene. Un semplice ma utilissimo punto di partenza consiste nel contare quante persone hanno un impiego sul totale: una misura che si chiama “tasso di occupazione”. Qui troviamo un calo, ma non come forse ci aspetteremmo da un evento di questa portata. Due punti percentuali in meno, negli stessi primi sei mesi del 2020, ovvero circa tre anni di faticosissima crescita e 700mila occupati e occupate andati persi. Qualcosa di simile vale se guardiamo a quante persone sono inattive, a intendere che non hanno un lavoro né lo stanno cercando, con valori cresciuti di tre punti e mezzo anche per la difficoltà di cercare un posto durante le chiusure di primavera.

Ma il colpo subito dal mercato del lavoro è ancora più profondo, perché misure come cassa integrazione e blocco dei licenziamenti addolciscono temporaneamente i numeri di una situazione in realtà ben peggiore. Eppure basta contare quante ore hanno davvero lavorato le persone per capire che l’epidemia ha inciso sulla situazione economica delle persone (e non solo, ovviamente) probabilmente più di qualunque altro evento nella storia italiana dall’ultima guerra in avanti. Tanto che in media, mostra l’Istat, nel secondo trimestre 2020 ogni dipendente ha lavorato grosso modo il 25 per cento in meno al normale.

Sono tutti elementi che rendono ancora più importante, anche e soprattutto al di là dell’emergenza, far arrivare le misure di sostegno nelle mani di chi davvero ne ha bisogno, non disperderle altrove.

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