Cedere la quota della società detenuta direttamente dallo stato è una decisione corretta. Ma continuare a controllarne il 35 per cento con Cdp alimenta un problema tutto italiano
Il governo vuole cedere la sua partecipazione del 30 per cento in Poste Italiane nell’ambito del programma di privatizzazioni da 20 miliardi. Probabilmente sarà la cessione più rilevante perché la quota direttamente detenuta dallo stato vale in Borsa circa 4,5 miliardi. Il 35 per cento rimane in capo a Cassa Depositi e Prestiti (Cdp).
Se l’obiettivo del governo è fare cassa, la vendita di Poste è la decisione corretta perché, dalla privatizzazione del 2015, quella di Poste è stato una storia di successo che faciliterà il collocamento.
Da quel giorno, infatti, il titolo in Borsa è cresciuto del 21 per cento più dell’indice azionario italiano (Ftse-Mib) e del 23 rispetto a quello dell’area euro (EuroStoxx 50). Una performance che riflette la crescita stabile dei ricavi, d+2 per cento in media l’anno dal 2018, accompagnata da un incremento dei margini (risultato operativo su fatturato) saliti dal 14 al 22 per cento stimato dagli analisti per quest’anno; e che il nuovo Piano prevede in ulteriore crescita al 24 nel 2028. Pur avendo avuto lo stato come azionista di controllo (65 per cento direttamente e tramite Cdp) le Poste, dall’anno della quotazione, sono riuscite a ridurre il costo del lavoro di oltre un miliardo. Una gestione efficiente che dall’anno della quotazione ha prodotto una crescita media annua dell’utile per azione del 14 per cento.
Le chiavi del successo
Diversificazione e ubiquità della rete sul territorio sono state le chiavi del successo di Poste. Il servizio postale è considerato universale, ovvero ogni cittadino ha diritto ad averlo, e pertanto regolato da Direttive Comunitarie. Poiché un servizio universale costituisce un obbligo per il concessionario, è sussidiato dallo stato nella misura in cui l’attività non è economica; a maggior ragione con l’avvento della posta elettronica, e la sua la certificazione, nonché delle altre forme di trasmissione digitale.
Secondo Eurostat il numero di lettere gestite dal servizio postale in Italia è diminuito in media di quasi l’8 per cento l’anno negli ultimi 10, ma rappresenta pur sempre 35 lettere per abitante (meno delle 149 e 107 rispettivamente di Germania e Francia). La pubblica amministrazione è oggi il principale utente del servizio postale, il cui costo è quindi destinato ad aumentare con l’auspicabile digitalizzazione degli enti pubblici e della burocrazia. Poste tuttavia non è stata capace di rendere redditizio il servizio non avendo sviluppato in modo adeguato il segmento della logistica per la consegna dei pacchi, nonostante la forte crescita dell’e-commerce.
Le fonti di redditività
La perdita operativa di oltre 500 milioni nel 2017 è stata via via ridotta fino ai 40 di quest’anno. Ma il nuovo Piano, pur prevedendo una crescita media annua dei ricavi dai pacchi del 7 per cento, stima che anche a fine 2028 il servizio postale non riuscirà a contribuire in modo significativo al risultato operativo del gruppo.
Servizi finanziari, assicurazioni e digitale continueranno ad essere la principale fonte di redditività. Questo spiega perché il titolo Poste abbia avuto una performance di Borsa nettamente superiore a ex monopolisti pubblici quotati come DeutschePost e Royal Mail che sono rimasti focalizzati sul servizio postale, pacchi e logistica. L’unica azienda postale con lo stesso modello di diversificazione di Poste, la francese La Poste, è interamente posseduta dallo stato, ma con una redditività nettamente inferiore (margini del 6 per cento rispetto al 22 di Poste) non dovendo remunerare investitori privati.
Nei servizi finanziari Poste, oltre alla tradizionale raccolta di buoni e libretti per conto di Cdp, e per la quale riceve una commissione, usa la sua rete per distribuire prodotti di terzi, come prestiti al consumo e mutui, generando ricavi commissionali senza sostenere il rischio di questi investimenti. Con BancoPosta raccoglie anche depositi dalla clientela che investe per metà in titoli di stato, e il resto in titoli garantiti dallo stato e crediti di imposta verso la pubblica amministrazione. Un’attività di intermediazione senza rischi (tranne quello dello stato), e che pertanto richiede poco capitale.
L’attività più redditizia di Poste è quella assicurativa. Suo principale merito aver saputo creare una grande compagnia dal nulla, relativamente in pochi anni, e che oggi genera l’87 per cento del risultato operativo (rispetto al 17 dei servizi finanziari), pur rappresentando appena il 17 per cento dei ricavi (rispetto al 44 dei servizi finanziari e 31 di quelli postali).
La seconda maggiore fonte di valore del titolo, specie in prospettiva, è la piattaforma digitale che affianca la rete fisica degli sportelli per fornire ai clienti il canale di accesso ai servizi che prediligono: moneta e pagamenti, pacchi e raccomandate, banca online, carte di credito, polizze e così via.
La piattaforma è stata poi estesa a servizi come l’identità e la firma digitale, o l’offerta di telefonia ed energia. I servizi digitali rappresentano oggi solo il 12 per cento dei ricavi, ma con un margine del 30 per cento e forti prospettive di crescita contribuiranno in modo rilevante alla redditività futura.
La mossa del governo
Poste vale in Borsa 1,3 volte il patrimonio netto, superiore allo 0,9 medio dei titoli bancari europei, ma inferiore all’1,8 medio delle assicurazioni: una valutazione ragionevole tenuto conto che la sua attività bancaria è meno rischiosa delle banche essendo di mera distribuzione e intermediazione, mentre la redditività di quella assicurativa è diluita dai servizi postali. Legittimo quindi attendersi che la cessione della quota dello stato incontri il favore del mercato, anche perché aumenterà in modo considerevole il flottante, condizione necessaria per attirare l’interesse dei grandi investitori internazionali.
Per massimizzare l’introito, il governo dovrebbe infine accelerare la tempistica del collocamento di Poste per sfruttare l’effetto benefico sulla redditività dell’aumento del margine di interesse, prima che la Bce avvii con decisione un ciclo di tagli dei tassi; stesso discorso vale per Mps.
Il sistema misto
A collocamento in Borsa concluso, lo stato continuerà a controllare Poste tramite Cdp con il 35 per cento. E qui cominciano i problemi perché il legame Cdp-Poste è intrinsecamente legato alla struttura e stabilità finanziaria di Cdp, e costituisce di fatto un onere aggiuntivo per la finanza pubblica; e al tempo stesso rappresenta un indebito sussidio per gli azionisti privati di Poste.
Cdp paga infatti una commissione a Poste per il collocamento dei buoni fruttiferi e libretti, la sua principale fonte di finanziamento. Cdp usa poi gran parte delle risorse finanziare raccolte tramite Poste per depositarle sul conto corrente di tesoreria del Mef, remunerate con uno spread a favore di Cdp, e per acquistare titoli di stato. In questo modo stimo che 210 dei 285 miliardi della raccolta postale siano affluiti nelle casse dello stato. A cui si aggiungono i depositi di BancoPosta investiti in titoli di stato e crediti di imposta verso la pubblica amministrazione, e su cui Poste lucra un margine di interesse.
Di fatto, depositi e raccolta postale tradizionale costituiscono una costosa forma di debito pubblico: costosa perché, rispetto ai titoli di stato collocati direttamente sul mercato, il Tesoro paga in più le commissioni a Poste e uno spread a Cdp; di fatto, perché le passività di Cdp non sono più considerate debito pubblico solo grazie al 16 per cento delle Fondazioni bancarie nel suo capitale. Un maggiore onere che in parte costituisce una rendita per gli azionisti privati di Poste.
Ritengo sia questa la ragione per cui DeutschePost, quotata, abbia deciso di cedere sportelli e servizi finanziari per concentrarsi nella logistica, mentre la francese La Poste, in tutto simile a Poste, è interamente pubblica e con una redditività nettamente inferiore.
Una volta di più è il problema che affligge il sistema delle società miste pubblico-private tipico delle partecipate pubbliche nostrane.
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