La mappa dei risultati elettorali mostra che, nonostante la vittoria del centrodestra, la sfida continua a essere potenzialmente aperta. Basterebbe che Pd, M5s, Azione e Italia viva convergessero su una proposta comune
Sia chi ha vinto sia chi ha perso farebbe bene a capire di quanto, dove e tra quali categorie sociali. Sapendo che ogni calcolo deve tenere conto di vincoli e incentivi del sistema elettorale. Possiamo presumere che di questo sia particolarmente consapevole Giorgia Meloni, mentre sta negoziando la formazione del suo primo governo, così come dovrebbero esserlo dirigenti e militanti del Pd che si accingono a discutere della leadership e della linea politica del loro partito.
Gli altri avranno tempo per riflettere, loro no. Le scelte fatte a breve avranno effetti di lungo periodo. Se le scelte saranno congruenti con le opportunità disegnate dal risultato potranno consolidarlo o migliorarlo, altrimenti potranno solo fare peggio.
Quanto al sistema elettorale, è altamente improbabile che i partiti di centrodestra, nettamente vincitori grazie alla pur timida componente maggioritaria della legge Rosato e quindi più che mai sostenitori dei «governi creati da un mandato popolare», favoriscano il ritorno a un sistema proporzionale di stile “Prima Repubblica”, alle maggioranze a geometria variabile e agli inevitabili esecutivi tecnici visti nella legislatura appena conclusa. I collegi potrebbero forse sparire ma non la sottostante logica maggioritaria.
La geografia è cambiata
Cosa dicono quindi i dati più rilevanti? Che la geografia elettorale interna alle due macroaree politiche, di maggioranza e di opposizione, è notevolmente cambiata. Al contrario, se si considera l’equilibrio elettorale tra il centrodestra e le opposizioni che a vario titolo si collocano a sinistra del centro, la geografia elettorale dell’Italia mantiene tratti molto simili a quelli identificati dai ricercatori dell’Istituto Cattaneo già negli anni Sessanta e, nel complesso, rapporti di forza molto simili a quelli già sperimentati a partire dagli anni Novanta.
Il centrodestra era nato da una alleanza costruita da Silvio Berlusconi con la Lega al nord e Alleanza nazionale al sud. Perché la Lega, per ragione sociale e tratto identitario, al sud nemmeno esisteva, mentre era proprio al sud che la destra post missina continuava ad avere la sua base elettorale più consistente.
Oggi Fratelli d’Italia viaggia in tutto il nord e nel Lazio intorno al 30 per cento dei voti, laddove FI e Lega messi insieme stanno intorno al 20 per cento, mentre al sud c’è un sostanziale equilibrio (20 a 20). Lo squilibrio è invece ancora più accentuato tra l’elettorato dei grandi centri urbani: qui FdI prende in media il 20 per cento dei voti; gli altri due, messi insieme, la metà. Difficile pensare che siano tutti elettori “Dio-patria-famiglia”. Piuttosto: operai e commercianti.
Nel frattempo, Lega e FI si sono meridionalizzati. La Lega prende oggi un terzo dei suoi voti (e quindi dei seggi) in regioni in cui nel 2013 non toccava palla. FdI, che prende il 55 per cento dei suoi voti a nord del Lazio, non potrà più essere centralista, la Lega si dovrà anche fare carico di interventi per il Mezzogiorno.
Mappe speculari
Dall’altra parte, le mappe del consenso per il Movimento 5 stelle e per il Pd sono quasi perfettamente speculari. Dove cresce la forza elettorale del primo recede quella del secondo. Il Pd è meglio radicato nel nordovest, nella “zona rossa” (Emilia-Romagna, Toscana, Marche e Umbria settentrionali) e nel centro delle grandi città (tra laureati, studenti e classe media soddisfatta del suo reddito); il M5s al sud, in Sicilia e nelle periferie disagiate dei grandi centri urbani (tra casalinghe, disoccupati, economicamente fragili).
Carlo Calenda va un po’ meglio nel nordest (tra imprenditori e professionisti). E va benissimo in Basilicata, per un evidente merito dei fratelli Pittella.
Le tre componenti di opposizione, messe insieme (in qualche modo) avrebbero potuto fare meglio. Non si può dire quanto meglio. Non tutti i voti si sarebbero sommati. Ma nemmeno si può escludere che una coalizione con più chance di contrastare il centrodestra (Cd) avrebbe convinto più persone tra quelle rimaste invece a casa nell’aspettativa di un esito scontato.
Per chi ha questa curiosità, nel rapporto disponibile su www.cattaneo.org, abbiamo riportato i risultati di un puro esercizio contabile. Abbiamo calcolato le vittorie nei collegi elettorali con tutte le formule di coalizione astrattamente possibili (Centrosinistra+M5s+Azione-Italia viva, Cs+M5s, Cs+AzIv) nella irrealistica ipotesi che ciascun partito avrebbe portato alla coalizione esattamente gli stessi voti registrati il 25 settembre.
D’altro canto, l’ipotesi che alleanze più larghe avrebbero ottenuto risultati migliori è confortata dall’evidenza dei collegi senatoriali del Trentino-Alto Adige, dove i candidati sostenuti da Cs+AzIv hanno vinto in due collegi (Trento, Bolzano) e sfiorato la vittoria in un terzo.
Andando divisi, Cs-M5s-AzIv hanno consentito in tanti casi al Cd di vincere a mani basse. In alcune aree sarebbe comunque andata a finire così. Nei collegi uninominali del nord e del centro, in media, la distanza tra primo e secondo piazzato è stata di oltre 20 punti percentuali e i candidati di Cd risultati vincenti hanno ottenuto intorno al 50 per cento dei voti.
Ma nella zona rossa, al sud e nelle grandi città ci sarebbero stati ampi margini per attenuare la sconfitta se non per invertire il segno del risultato finale.
Invece, soprattutto al sud, Cs e M5s sono arrivati spesso secondi o terzi, mediamente a 10 punti dal primo, tranne quei pochi casi in cui uno dei due è riuscito a prevalere. I candidati di Calenda sono arrivati terzi in 64 collegi tra Camera e Senato (il 29 per cento del totale); non sono mai arrivati né secondi né primi.
Le zone geopolitiche
Se consideriamo la mappa che mette a confronto i consensi ottenuti dalla coalizione che esprime la maggioranza parlamentare e quelli ottenuti nel complesso dai partiti che si collocano all’opposizione, possiamo infine notare che riflette tratti ben noti.
Essa riproduce in sostanza, con poche variazioni, la ripartizione in zone geopolitiche delineata dall’Istituto Cattaneo già negli anni Sessanta. Naturalmente, i partiti che la contraddistinguono sono cambiati, le differenze tra le zone sono meno marcate e gli allineamenti elettorati sono decisamente meno stabili che in passato. Tuttavia, rimangono sfumature divergenti tra nordovest e nordest che sconsigliano di considerarle come un tutt’uno.
Semmai c’è da tenere conto del netto orientamento a destra della dorsale che scorre lungo le province di Rovigo, Padova, Verona, Brescia, Sondrio, Como da un lato e della storica diffidenza verso la destra nazionalista del Trentino-Alto Adige dall’altro.
La zona rossa mantiene, sebbene in una misura attenuata, la prevalenza del voto a sinistra, anche se i suoi confini non coincidono (come del resto in passato) con quelli regionali. Vi rientra la Liguria orientale, ne sono escluse Ferrara, Piacenza, oltre alle province meridionali di Umbria e Marche che presentano tendenze più simili ad altre province del centro (Lazio, Abruzzo) dove torna a prevalere il Cd.
Rimane la relativa omogeneità, sul piano elettorale, anche della zona meridionale, composta dalle restanti regioni del sud e dalle isole. La Sardegna ha in effetti caratteristiche proprie che in passato avevano consigliato di aggregarla alle regioni del centro. Una scelta che oggi non appare più giustificata.
In conclusione, questa mappa indica le aree del paese in cui il governo di imminente formazione gode, a oggi, di un ampio consenso e da cui ha ricevuto un chiaro mandato, a fronte di quelle in cui l’elettorato si è rivolto in misura prevalente alle forze di opposizione.
A queste ultime la stessa mappa indica che la competizione continua a essere potenzialmente aperta. Dice che la prospettiva per cui dovrebbero lavorare, invece di continuare a collidere tra loro, è quella di provare in futuro a convergere su una proposta comune, se vogliono contribuire a rendere effettiva la democrazia dell’alternanza.
Del resto il compito della politica, per chi si candida non solo a rappresentare specifici segmenti dell’elettorato ma a governare l’Italia (che era poi il compito per cui è nato il Partito democratico), consiste proprio nel contemperare le domande delle diverse categorie e dei differenziati territori di cui l’Italia si compone.
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