L’epoca dell’incertezza, del succedersi e concatenarsi polifonico delle crisi, dell’accesso diffuso e massiccio alle messe in scena di sé sui social, è anche l’era del desiderio di autorealizzazione, riconoscimento e gratificazione personale. Siamo sempre più nell’epoca dell’applauso, del bisogno di conferme e affermazioni di sé.

Dopo le lunghe fasi di necessario arretramento individuale sospinte dal Covid, dal caro vita, dalle paure suscitate dalle guerre e dalla recrudescenza della violenza nel quotidiano, le persone (almeno una parte consistente della società) stanno avvertendo il bisogno di lasciare i lidi della resilienza, per approdare a una dimensione di maggiore leggerezza e di piacere.

Ogni fase di compressione societaria, di limitazione, che costringe a fare i conti con la pesantezza esistenziale, alleva dentro di sé spinte diametralmente opposte, orientate alla liberazione, alla levità, alla distrazione, alle dimensioni dionisiache.

Le tendenze contemporanee sono marcate a fuoco dalle due spinte combinate di bisogno di auto-affermazione, di applauso e di piacere esistenziale. Siamo sempre più in un’epoca dell’hic et nunc, di “individui performativi edonisti”.

I numeri

L’83 per cento degli italiani vuole mostrare le proprie abilità ed essere apprezzato per queste capacità. Un bisogno che sale all’87 per cento tra i giovani della Gen Z e all’86 per cento nel sud e nelle isole. Un’urgenza di riconoscimento meritocratico strettamente legata alla necessità di essere diversi e distinti, di non essere uno o una fra i tanti, ma dell’essere riconosciuti come dei prius, dei soggetti speciali.

Il 79 per cento dell’opinione pubblica aspira a raggiungere gli obiettivi di vita prefissati ed essere riconosciuto per i propri successi. Una spinta che è all’81 per cento tra i giovani, all’84 nel ceto medio e all’86 nel sud e nelle isole.

Il 72 per cento delle persone, infine, ambisce a un’esistenza in cui sia possibile svagarsi e togliersi dei vizi. Una brama che coinvolge i giovani della Gen Z (80), la generazione millennials (81) e quella parte del ceto medio basso che aveva un tempo posizioni e privilegi e che oggi ha dovuto rinunciare alle dimensioni di stabilità e certezza, perdendo posizioni sociali ed economiche.

Una spinta accompagnata dalla voglia di divertirsi in ogni occasione e di fare cose piacevoli (79). Il famoso slogan “saremo migliori” risuonato nell’epoca del Covid, in pochi anni si è riconvertito in una duplice prospettiva.

Le contraddizioni 

Da un lato, per dirla con il filosofo francese Gilles Lipovetsky, con i tratti sempre più marcati di una ipermodernità, segnata dalle spinte all’iperconsumo, all’iperindividualismo e all’ipercompetizione; dall’altro lato da una dimensione societale caratterizzata dalla performance e dalla sua esposizione, dalla sua vetrinizzazione, in cui l’individuo è costantemente spinto a superare se stesso e a mettersi in mostra, condannato a diventare il narratore di sé stesso.

Tutto questo non è privo di contraddizioni. La spinta della dimensione estraniante porta con sé forme di narcotizzazione della società, con la sua tendenza a mettere i problemi sotto il tappeto, a rinviarli sine die. La società dell’applauso e la ricerca costante di prestazioni e successo porta al rischio di esaurimento, all’affaticamento, alla debolezza del domani. E non è certo un caso se la quota di italiani che si è sentito depresso è negli ultimi anni cresciuta dal 19 al 23 per cento.

Byung-Chul Han, il filosofo sudcoreano-tedesco, ha parlato di «società della stanchezza», una realtà in cui la ricerca costante dell’applauso, della performance e dell’autoaffermazione porta con sé il rischio di cadute inattese cui non si è preparati. «La società della prestazione», dice Han, «produce perdenti depressi».

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