L’irruzione delle masse nella storia caratterizza l’epoca contemporanea. Lo sviluppo economico moderno, a partire dalla rivoluzione industriale inglese, ne è la premessa: crea le condizioni per un mercato sempre più vasto di beni di consumo, dal lato della domanda, mentre, da quello dell’offerta, grazie all’innovazione tecnologica, consente di abolire la schiavitù e la servitù, dando forma al principio di uguaglianza giuridica, e trasforma i contadini nei proletari dell’industria; presto peraltro le masse saranno chiamate anche a fare la guerra (maneggiare le nuove armi da fuoco richiede molto meno addestramento), già in età napoleonica e poi ancora di più nei due conflitti mondiali.

Sin dall’Ottocento, la partecipazione economica ai meccanismi della produzione e del consumo nel capitalismo di mercato, degli uomini e progressivamente delle donne, quindi anche la partecipazione militare alle venture della “patria” si traducono nella richiesta di partecipazione politica: nella rappresentanza, nel governo dello stato. Inizialmente da parte della borghesia, quindi anche dal mondo operaio.

Dapprima solo degli uomini poi, già sul finire del secolo e in maniera più decisa a partire dalla Grande guerra, anche delle donne. Inizialmente solo nei paesi più avanzati, Inghilterra, Francia, Germania, Stati Uniti; successivamente anche nella cosiddetta “periferia” europea (Italia compresa, all’epoca), nei territori dell’Impero russo e poi, e questo già durante la prima metà del Novecento, perfino in alcune grandi civiltà non europee, dal mondo musulmano alla Cina.

Richiesta di democrazia

Questa richiesta di partecipazione politica, cioè in sintesi di democrazia, è formulata all’interno di un quadro ideologico che non a caso insiste sull’uguaglianza di fronte alla legge di tutti gli esseri umani: il grande portato storico del liberalismo, il suo fondamentale punto di rottura, sul piano giuridico e anche ideale, rispetto alle istituzioni, alle culture e alle società del mondo pre-industriale.

Sennonché proprio il pensiero liberale su questo entra in contraddizione. Alla domanda di partecipazione che proviene dal basso il liberalismo cosiddetto “classico”, quello dell’Ottocento, si chiude.

Il timore, peraltro storicamente non infondato, è quello della tirannia della maggioranza: il ritorno al Terrore, al periodo robespierriano della rivoluzione francese. Ma dietro la cortina di questi fantasmi troviamo una incoerenza, di fondo, che proprio il liberalismo con lo sviluppo economico moderno ha generato, ma che a quel tempo, prigioniero dei dogmi del laissez faire, chiuso nella difesa della proprietà (il «terribile diritto», come lo chiamava Beccaria), e anche contaminato dalle nuove teorie del darwinismo sociale e razziale, non riesce ad affrontare.

È la disuguaglianza. Una disuguaglianza economica crescente, dentro i paesi avanzati, a danno soprattutto del crescente proletariato europeo, e fra i paesi, a danno cioè dell’Asia e dell’Africa. Una disuguaglianza sostanziale, che fa a pugno con i proclami ideali sugli uomini che nascono, tutti, «liberi e uguali».

Dipendenti dalla sorte

Gli studiosi concordano sul fatto che le società europee che nel 1914 precipitarono nel più spaventoso conflitto della storia umana (fino ad allora) avessero alle spalle decenni in cui, in un quadro di crescita senza precedenti dell’economia nel suo complesso e di spettacolare sviluppo tecnologico, le disuguaglianze fra i cittadini erano aumentate; mitigate nella sostanza soprattutto dalla grande emigrazione verso le Americhe (che faceva da valvola di sfogo alleviando la sovrappopolazione), assai meno dalle prime misure di welfare, ancora molto timide, che in alcune realtà più avanzate cominciavano a introdursi.

Di più, e questa era un’assoluta novità, e un portato dell’èra industriale: per la prima volta si erano creati divari molto profondi fra le regioni e le aree del mondo, cioè fra i paesi che si industrializzavano e quelli che rimanevano indietro.

Il liberalismo annunciava l’èra della libertà e dell’uguaglianza giuridica, ma le fortune individuali, e anche i diritti di cui una persona poteva godere, continuavano a dipendere dalla sorte: dal ceto sociale di appartenenza e anche, adesso, dalla parte di mondo in cui si aveva la fortuna di nascere.

Comunisti e fascisti

L’incapacità di affrontare la disuguaglianza, frutto dello sviluppo economico moderno, genera la grande contraddizione del pensiero liberale, fra Otto e Novecento. Una contraddizione talmente plateale che il liberalismo, e con esso gli ideali di democrazia e libertà, finiranno sul punto di esserne travolti.

È su questo terreno che il liberalismo viene infatti sfidato, innanzitutto, dall’ideologia comunista, e in generale da quanti a sinistra non accettano l’evoluzione riformista del socialismo e quindi il quadro della democrazia liberale.

Ma su questo terreno, da una sponda opposta, il liberalismo viene sfidato anche dal fascismo e dal nazismo: cioè da quanti a monte non accettano l’idea di emancipazione, fondata sui diritti, e l’afflato universalista proclamati dal liberalismo (e per molti versi anche dal socialismo).

Entrambi, comunisti e fascisti, accusano i liberali di ipocrisia. Stretto fra questi due fuochi, fra gli anni Trenta e Quaranta, il liberalismo pare in effetti stia per soccombere; a un certo punto, fra il 1940 e il 1941, c’è il rischio concreto che scompaia dalla scena della storia, o almeno dell’Europa (peraltro in alcuni mesi c’è stata anche la possibilità che lo stalinismo e il nazi-fascismo si alleassero, e Churchill e Roosevelt contemplano seriamente questo scenario).

La strada del riscatto

Ma proprio in quel periodo drammatico, fra le due guerre mondiali e la crisi del 1929, il liberalismo riesce a trovare la strada del riscatto. Cambiando forma: sceglie di affrontare con politiche coraggiose (il keynesismo) le disuguaglianze, cioè di riconoscere accanto ai diritti civili i diritti sociali; come anche accetta pienamente la democrazia (il suffragio universale per uomini e donne), veicolata dall’azione dei grandi partiti di massa e dei corpi intermedi, e incardinata nelle istituzioni, liberali, della separazione dei poteri; e prova addirittura a costruire un ordine internazionale su basi nuove, che non siano la forza e la sopraffazione (fra tutte le sfida più difficile, vero, ma intrapresa).

È questa la strada, in breve, dell’incontro con il pensiero socialista democratico: quella che ha cambiato in meglio il volto dell’Europa occidentale negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, riducendo significativamente le disuguaglianze e promuovendo la pace e la cooperazione, realizzando le società nel complesso più prospere e libere che mai si siano viste nella storia umana; e contribuendo così anche a vincere la competizione con il modello comunista.

Oggi, in un’epoca storica diversa, noi siamo entrati in un’altra competizione decisiva, forse ancora più difficile: quella con il capitalismo autoritario, rappresentato soprattutto dalla Cina e dalla Russia (ma non solo, si pensi all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi).

Ci siamo arrivati dopo decenni in cui il liberalismo, diventato neo-liberalismo, aveva di nuovo posto in secondo piano i diritti sociali e provato a recidere il ramo comune con il socialismo democratico: riaprendo in questo modo, nei paesi occidentali, il varco delle disuguaglianze, per il quale si è fatta strada la fascinazione populista e sovranista; e trasmettendo il messaggio, ai paesi non democratici, che tutto quel che conta in fondo è la libertà del mercato e la crescita economica, mentre i diritti umani (civili, sociali, ambientali) sono in fondo secondari.

Ai regimi del capitalismo autoritario, a quanto pare, questo messaggio non dispiace: e si sono infatti rafforzati, negli ultimi venti anni. Forse qualche lezione dalla storia sarà il caso di cominciare a impararla.


Emanuele Felice interverrà alla rassegna “Disuguaglianze e democrazia. Quale futuro per un capitalismo democratico?”, a cura del Mulino, alla Nuvola di Roma il 26 marzo.

© Riproduzione riservata