- I trasporti sono un settore efficace per ridistribuire il reddito? Una mobilità non discriminante è essenziale per accedere sia al mercato del lavoro, che a quello della casa (riduce la rendita urbana), che ad attività commerciali a prezzi ridotti (la grande distribuzione).
- meglio agire sulle tariffe o sulla disponibilità dei servizi? A priori, agire sulle tariffe consente di “mirare” meglio le politiche ridistributive, ma presenta alcuni problemi sociologici che qui non possiamo approfondire.
- Vi è molta differenza in termini di socialità tra trasporti di breve-media e quelli di lunga percorrenza. I primi sono quelli dei pendolari, gli altri sono più legati a motivi di affari o di turismo.
La Costituzione prescrive, all’articolo 53, che le tasse devono ispirarsi a criteri di progressività, cioè devono essere uno strumento per ridurre le diseguaglianze. Ma lo dice anche la teoria economica: pagare la stessa cifra costituisce un sacrificio diverso tra chi ha di più e chi ha di meno.
Redistribuire con strumenti monetari (cioè anche con supporti diretti al reddito) ha anche l’indubbio vantaggio nel lascar libero l’uso del reddito stesso, al contrario del più paternalistico strumento dell’erogazione diretta di servizi scelti politicamente. Questo in teoria. Ma in pratica esistono problemi di “consumi meritevoli”, di evasione fiscale endemica, di informazioni inadeguate ecc. che comunque rendono universale l’erogazione di servizi pubblici. Tra questi ve sono molti connessi alla mobilità.
Trasporti per redistribuire
Una prima questione è: i trasporti sono un settore efficace per ridistribuire il reddito? La risposta è abbastanza positiva: una mobilità non discriminante è essenziale per accedere sia al mercato del lavoro, che a quello della casa (riduce la rendita urbana), che ad attività commerciali a prezzi ridotti (la grande distribuzione, evitando i micro-monopoli del commercio locale).
Meglio agire sulle tariffe o sulla disponibilità dei servizi? A priori, agire sulle tariffe consente di “mirare” meglio le politiche ridistributive, ma presenta alcuni problemi sociologici che qui non possiamo approfondire.
Infine, vi è molta differenza in termini di socialità tra trasporti di breve-media e quelli di lunga percorrenza. I primi, che costituiscono il 95 per cento della totalità degli spostamenti, sono quelli interni ai confini regionali, e quindi riguardano tutti gli spostamenti per lavoro o per studio (“pendolari”), ma anche quelli per il tempo libero, per acquisti, ecc.. Quelli sulle distanze extraregionali sono più legati a motivi di affari o di turismo, quindi di rilevanza sociale sostanzialmente inferiore.
Questione di prezzo
Consideriamo le “politiche di prezzo” in atto: chi si muove con i trasporti pubblici locali (TPL) è fortemente sussidiato, paga meno della metà dei costi di produzione del servizio (per metropolitane e treni regionali ancora meno). Nulla di opinabile in sé, anche se appare poco accettabile che l’informazione su questa realtà sia sistematicamente occultata: molte aziende dichiarano profitti, e per esempio pochi cittadini milanesi sanno che i profitti dichiarati della loro azienda comunale sono a valle di sussidi dell’ordine di un milione di € al giorno.
Simmetricamente, chi si muove con l’auto privata versa alle casse pubbliche, tra tasse sul carburante ed altre, circa il 50 per cento dei costi che affronta viaggiando, per un totale di circa 45 miliardi di euro all’anno. Una politica redistributiva solo apparentemente equa, in realtà riferita ad una realtà sociale che si è modificata radicalmente.
Nessuna delle due politiche è infatti socialmente “mirata”: molti utenti del trasporto pubblico, specie nei centri urbani maggiori, dove è di gran lunga più usato sono a reddito medio-alto, e molti utilizzatori dei mezzi privati non sono tali per scelta, specie nelle aree a bassa densità.
Non è tecnicamente possibile fornire trasporto pubblico dove la domanda è poco concentrata. I mezzi viaggerebbero semivuoti, il servizio sarebbe comunque inadeguato per tempi di viaggio e frequenze, e per gli utenti di tali servizi cambiare lavoro o residenza sarebbe problematico, e i costi pubblici per passeggero trasportato sarebbero proibitivi (si pensi che l’occupazione media dei posti offerti a Milano è solo del 12 per cento, e per aree meno dense è inferiore in proporzione).
Agire sulle quantità
Se in termini distributivi la situazione dei “prezzi” è per lo meno ambigua, considerando le quantità volge nettamente al peggio. Indipendentemente dalle tariffe, abbiamo visto che i trasporti collettivi hanno la massima concentrazione nei grandi centri urbani, dove risiedono le categorie a reddito più elevato, che ne beneficiano sia direttamente come utenti, che indirettamente come valorizzazione degli immobili. Il fenomeno si estende anche ai centri minori da cui la pendolarità ha origine: i valori immobiliari sono maggiori in centri ben collegati, soprattutto da servizi ferroviari regionali.
Sarebbe necessario, come avviene in molti paesi anglosassoni, differenziare le tariffe dei trasporti pubblici, con abbonamenti scontati per gli utenti a più basso reddito. Se poi l’apertura alla concorrenza allineasse il costo di produzione dei servizi a valori medi europei, per gli utenti a più basso reddito il servizio potrebbe essere reso gratuito. Per esempio, se da circa 4 euro a autobus km si passasse solo a 3 (i valori migliori europei sono dell’ordine di 2,5) riducendo l’attuale copertura tariffaria del servizio dal 40 al 20 per cento, la gratuità sarebbe possibile per la metà circa degli utenti.
Per le automobili, sarebbe sufficiente accelerare il progresso tecnico in corso per ragioni ambientali: i prezzi dei veicoli elettrici si ridurranno rapidamente con le economie di scala e sarebbe sufficiente poi non tassare l’uso dell’energia elettrica al di sopra dei livelli attuali.
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