La legge sulla parità salariale è stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale all’inizio di novembre 2021, ma mancano ancora alcuni decreti attuativi. Quella norma approvata all’unanimità alla Camera e al Senato ha corretto il codice per le pari opportunità del 2006, che aveva imposto l’obbligo di trasparenza per le aziende sopra i cento dipendenti sull’inquadramento delle lavoratrici e sulle differenze retributive tra uomini e donne.

Buco legislativo

La nuova norma, tra le altre cose, abbassa l’obbligo alle aziende con almeno 50 dipendenti, e impone un sistema capillare di raccolta dati che finora è sempre mancato, tramite la creazione di una piattaforma nazionale a cui possono accedere anche le consigliere di parità e i rappresentanti sindacali.

«Gli ultimi dati disponibili», racconta la deputata Pd Chiara Gribaudo che è stata relatrice della legge a Montecitorio, «erano del 2008. Ora la legge c’è, ci sono anche le risorse, siamo riusciti a far stanziare tre milioni di euro per la creazione della piattaforma e 50 milioni per gli sgravi dei contributi previdenziali alle aziende che faranno certificare le misure adottate per favorire la parità di genere, mancano i decreti».

Sui decreti mancanti il ministero del Lavoro rimbalza la questione a quello della Famiglia che invece non risponde: il decreto per l’avvio della raccolta dati, infatti, è stato già firmato dal ministro Andrea Orlando, spiegano dal ministero del Lavoro, mancano ancora due dpcm che sono di iniziativa dell’altro dicastero.

Maggiori obblighi

La nuova norma impone maggiori obblighi informativi: i dati da fornire, come sempre essenziali per orientare le politiche pubbliche e come quasi sempre in Italia mancanti, riguardano non solo il salario, ma anche i livelli e le qualifiche, il tipo di contratti, la formazione, i licenziamenti e la distribuzione degli ammortizzatori sociali, ovviamente le retribuzioni. L’allargamento della platea delle imprese poi implica che queste vadano accompagnate nella stesura del rapporto.

Al momento, infatti, considerando che è stato disatteso dell’obbligo imposto dalla legge del 2006, sostanzialmente solo i grandi gruppi competitivi a livello nazionale e internazionale sono abituati a fornire parte di questi dati tramite i bilanci di sostenibilità. I report vanno stilati ogni due anni. Questo significa che la piattaforma dovrebbe essere pronta per il 2023 e le informazioni arrivare per il 2024.

Per dare un’idea di quanto sia importante la raccolta dei dati basta dare una lettura rapida ai bilanci di sostenibilità delle prime aziende italiane, quelle appunto che, più che per obbligo di legge, forniscono dati sulla parità di genere per essere in linea con le prassi dei mercati in cui competono, che tendenzialmente prestano più attenzione a questi dati.

Le cifre riportate suggeriscono sia i fenomeni da combattere, per esempio la segregazione verticale per cui le donne non arrivano alle posizioni di vertice, che possibili azioni per rimediare a una situazione complessivamente deprimente.

L’ultimo bilancio di sostenibilità di Fca – quando ancora la fusione con Psa e quindi la nascita di Stellantis non era stata formalizzata – spiega che le donne nelle posizioni manageriali sono pari al 16,9 per cento, meno di un manager su cinque. Una quota in crescita, ma ben al di sotto per esempio della percentuale tra gli impiegati (21,2 per cento).

Problema di ingresso

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In Enel, secondo il rapporto di sostenibilità 2020, le donne rappresentano il 21,5 per cento della forza lavoro. Per aumentare la quota di donne, l’azienda ha deciso di porsi l’obiettivo di avere almeno la metà di candidate alle selezioni per le assunzioni nel 2021. Nel 2020 si fermavano al 44 per cento.

Lo stesso bilancio spiega che mentre le donne manager sono circa il 22 per cento del totale, in linea con la quota di occupate, solo l’11 per cento ricopre posizioni esecutive, appena due su diciotto. Al momento, quindi, c’è tutta una serie di obiettivi intermedi da raggiungere e persino la predisposizione di un budget ad hoc per garantire la parità di retribuzione per ruoli equivalenti.

Un budget evidentemente necessario: il documento certifica che l’Equal remuneration ratio, cioè il rapporto tra la somma dei compensi fissi e variabili delle donne e degli stessi degli uomini, è in crescita. Nel 2020 era pari all’83,3 per cento. Le donne tendenzialmente accedono meno alla remunerazione variabile, quella riservata ai vertici aziendali e spesso generosa in quanto legata agli obiettivi. Guadagnano infatti quasi un quarto in meno dei colleghi uomini.

In Eni nel 2020 il numero di donne membri dei consigli di amministrazione del gruppo è calato rispetto agli anni precedenti e ora è inferiore a quello che c’era nel 2016. In questo caso il bilancio di sostenibilità indica anche il numero di contratti part time per genere sono il sei per cento tra le donne e invece lo 0,2 tra gli uomini. Le assunzioni femminili sono in crescita, più di un terzo nel 2020, ma le donne dirigenti sono il 16,2.

Al Gse (Gestore di servizi energetici Spa), società controllata dal ministero dell’Economia, le donne sono quasi la metà dei dipendenti, il 47 per cento. Le dirigenti sono quattro contro nove uomini, ma è qui che si concentra la differenza salariale: «Le donne percepiscono l’80 per cento del salario medio dei colleghi uomini», si legge nel bilancio che con una involontaria ironia specifica anche che «nel 2020 non si sono verificati episodi di discriminazione».

Non si tratta nemmeno di questione di comparti. Se Poste e Generali hanno numeri migliori a livello di distribuzione di ruoli lungo la salita al vertice, per avere una quasi parità di dirigenti tra uomini e donne bisogna cercare in gruppi come Armani – gli uomini dirigenti sono 184 contro 159 donne – peccato però che Armani abbia il doppio di dipendenti donne rispetto agli uomini. Nel 2023 se tutto va bene scopriremo molto altro: servono meno mimose e più informazioni.

 

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