- «Le disuguaglianze non sono il prezzo da pagare alla crescita. Sono piuttosto il freno di ogni prospettiva di crescita», ha detto Sergio Mattarella nel suo discorso di insediamento, tra gli applausi.
- Una frase per nulla scontata che smonta una narrazione poco supportata scientificamente. La letteratura empirica ci dice che un rapporto più equilibrato tra capitale e lavoro fa meglio alla crescita rispetto ad interventi di ridistribuzione successivi.
- Invece riducono la crescita di più le disuguaglianze tra le fasce di reddito basse e la classe media che quelle tra classe media e redditi più alti e poi le disuguaglianze di opportunità.
«Le disuguaglianze non sono il prezzo da pagare alla crescita. Sono piuttosto il freno di ogni prospettiva di crescita». Verso la fine del suo discorso di insediamento, Sergio Mattarella ha pronunciato questa frase tutt’altro che scontata, che, come altre 54 da lui pronunciate, gli è valsa un lungo applauso da parte di tutti (sembrerebbe) i grandi elettori. Questo manifesto e unanime consenso non può che rallegrare quanti sostengono da tempo che quella della “disuguaglianza che serve alla crescita” è, per dire il meno, una narrativa di successo che sopravvive alla sua debolissima fondatezza, come del resto accade a ogni narrativa che si rispetti. Per questo l’unanime applauso alle opportune parole di Mattarella rallegra (e un po’ sorprende). Soprattutto incoraggia a approfondire brevemente la questione e a fornire, per chi lo volesse, qualche elemento di riflessione.
A livello teorico sono stati individuati, da diverse scuole di pensiero, molti possibili canali di influenza della disuguaglianza, soprattutto nei redditi, sulla crescita economica. Ma quello che conta è il riscontro empirico. Nella ricerca empirica, dati, periodi storici, approcci metodologici sono diversi e questo inevitabilmente si riflette sui risultati. Ma si può senz’altro dire che in pochissimi casi si rileva un effetto positivo della disuguaglianza sulla crescita; il risultato opposto è largamente prevalente.
Con riferimento al nostro paese le vicende della dinamica di disuguaglianza, produttività e crescita dai primi anni Novanta in poi sembrano andare nella direzione di confutare l’ipotesi del nesso positivo. In quegli anni e nei successivi, largamente per effetto di precise scelte politiche, la disuguaglianza ha preso a crescere, la produttività a stagnare e la crescita a declinare. E si potrebbe argomentare che la pressione sui salari, specie i più bassi, è la prima responsabile di tutto questo. Ha accresciuto le disuguaglianze, ha rallentato la convenienza a introdurre innovazioni, ha demotivato i lavoratori con ovvie conseguenze su produttività e crescita.
Ma al di là di questo aneddoto nazionale, gli studi internazionali - spesso di molto lungo periodo – permettono come minimo di escludere che la disuguaglianza serva certamente alla crescita. Cioè ‘meno disuguaglianza e più crescita’ è ben possibile e piuttosto frequente. Ciò invita, chi ambisce ad avere, appunto, ‘meno disuguaglianza e più crescita’, a approfondire le caratteristiche di quelli che potremmo chiamare i casi di successo. Cioè, a individuare le caratteristiche dei contesti nei quali la riduzione delle disuguaglianze si accompagna a un aumento della crescita. E qui, dalla letteratura empirica, emergono tre spunti di grande interesse.
Più salari meno rendite
Il primo è che in generale una bassa disuguaglianza favorisce la crescita se essa è l’esito più che di intense politiche redistributive di un funzionamento dei mercati che conduce a ‘poca’ disuguaglianza. Insomma, tassare e redistribuire è meno favorevole alla crescita di una meno diseguale distribuzione del reddito che si produce nei mercati tra capitale e lavoro e al loro interno tra capitalisti da un lato e lavoratori dall’altro. Una possibile intuizione è questa: innalzare i salari più bassi pagati nel mercato produce effetti di incentivo, utili alla crescita, assai maggiori di quelli che derivano da un eguale innalzamento ottenuto attraverso tassazione e trasferimenti. E favorevole alla crescita sarebbe anche la riduzione delle rendite di cui in vario modo godono coloro che occupano i gradini più alti della scala dei redditi.
Il secondo spunto è che sembra particolarmente dannosa per la crescita la disuguaglianza che si produce nella parte medio-bassa della distribuzione dei redditi. Cioè, approssimativamente, tra quella che chiamiamo classe media e i poveri, e questa disuguaglianza ha anche effetti di lungo periodo attraverso il minor investimento in istruzione dei figli dei meno abbienti. Meno importante sembra essere la disuguaglianza tra chi sta in alto e chi sta al centro della distribuzione.
Contro le disuguaglianze di opportunità
Il terzo spunto, a nostro avviso particolarmente importante, è quello che porta ad attribuire grande rilievo alla quota di disuguaglianza nei redditi riconducibile alle disuguaglianze nelle opportunità. In sintesi: se la disuguaglianza fosse interamente dovuta a meriti e sforzi individuali non sarebbe una disuguaglianza troppo ‘cattiva’ per la crescita. Quella cattiva è la disuguaglianza che scaturisce da diverse condizioni di partenza, da diverse opportunità. Potremmo dire la disuguaglianza che si trasmette da una generazione all’altra. E, nel nostro paese, questa disuguaglianza trasmessa è molto alta.
Da tutto questo si può desumere un’agenda politica così congegnata: occorre ridurre le disuguaglianze di mercato e nel ridurle curare che si attenuino gli effetti di trasmissione intergenerazionale. Sulla necessità di politiche che riducano la disuguaglianza di mercato – le cosiddette politiche pre-distributive – siamo già intervenuti su questo giornale. Ora le ragioni per adottarle si arricchiscono di una ulteriore importante motivazione: possono essere favorevoli alla crescita economica. E anche la necessità di politiche che limitino la trasmissione intergenerazionale ha le sue buonissime ragioni. Se ad esse si aggiunge anche il probabile positivo impatto sulla crescita diventa davvero difficile individuare nel recinto dell’equità e in quello dell’efficienza una sola ragione per non impegnarsi nella ricerca e nell’applicazione delle migliori politiche di contrasto di quella trasmissione intergenerazionale.
A tutto ciò si può aggiungere che se la crescita, come si usa dire, deve essere inclusiva non c’è probabilmente modo migliore di innescarla che riducendo le disuguaglianze. Di suo, la crescita tende di questi tempi ad essere ben poco inclusiva, come sembrano dimostrare i dati sul modo nel quale i (piccoli) incrementi di Pil si sono distribuiti tra i più ricchi e tutti gli altri. Dunque, l’auspicio è che vi sia un corridoio nei palazzi della politica dove la frase di Mattarella e l’applauso che ha suscitato continuino a risuonare, tenendo viva l’attenzione sulla questione di coloro che occupano le stanze attigue, mentre qualche campana annuncia la morte di una narrativa già troppo a lungo sopravvissuta ai suoi meriti.
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