Facebook ingannava gli inserzionisti fingendo che account finti fossero di persone reali, perché chi acquista la pubblicità sceglie di investire in una campagna in base a dove pensa che siano i suoi clienti
- Giovedì scorso un giudice ha autorizzato l’apertura di documenti legali che dimostrano che Facebook era coinvolto nella truffa ai danni degli inserzionisti.
- Lo schema era semplice. Facebook li ingannava fingendo che account finti fossero di persone reali, perché chi acquista la pubblicità sceglie di investire in una campagna in base a dove pensa che siano i suoi clienti.
- È la terza volta che Facebook è colto a mentire agli inserzionisti allo scopo di rubare loro i soldi. Ci sono altri comportamenti scorretti. Il crescente movimento anti-monopolio, nascente ma con un’influenza sempre maggiore, è una risposta culturale a questa illegalità.
Giovedì scorso un giudice ha autorizzato l’apertura di documenti legali che dimostrano che Facebook era coinvolto nella truffa ai danni degli inserzionisti. L’azienda ha detto agli inserzionisti che gli annunci raggiungono molte più persone di quanto non facciano effettivamente, inducendo i clienti a spendere sulla piattaforma più di quanto avrebbero fatto altrimenti. I documenti hanno rivelato che il Coo di Facebook Sheryl Sandberg ha supervisionato direttamente la presunta frode per anni.
Lo schema era semplice. Facebook ingannava gli inserzionisti fingendo che account finti fossero di persone reali, perché chi acquista la pubblicità sceglie di investire in una campagna in base a dove pensa che siano i suoi clienti. Gli ex dipendenti di Facebook hanno notato che alla società non importava dell’accuratezza dei numeri fintanto che le entrate pubblicitarie arrivavano. Facebook, hanno detto, «se ne fregava».
Le statistiche gonfiate a volte portavano risultati strampalati. Ad esempio, Facebook ha detto agli inserzionisti che i suoi servizi potevano raggiungere 100 milioni di persone tra i 18-34 anni negli Stati Uniti, anche se in quella fascia demografica ci sono soltanto 76 milioni di persone. Dopo che i dipendenti hanno suggerito una soluzione per aggiustare i numeri e renderli onesti, la società ha rifiutato l’idea osservando che l’«impatto sui profitti» per Facebook sarebbe stato «significativo». Un dipendente di Facebook ha scritto: «La mia domanda ultimamente è: per quanto potremo ancora farla franca con la sovrastima dei numeri?».
Stando a questi documenti, Sandberg ha gestito in modo aggressivo le comunicazioni pubbliche su come parlare agli inserzionisti delle statistiche gonfiate e Facebook ora sta resistendo al fatto che lei venga ora interrogata dagli avvocati in una causa collettiva per presunta frode.
Il decennio del crimine
La legge antitrust può essere complicata, ma queste azioni non lo sono. Si tratta solo di furto. Facebook vuole che la gente veda questa causa solo come l’azione di alcuni media o inserzionisti indignati e di qualche ex-impiegato frustrato, invidioso di un business di successo. Il problema, per Facebook, è che non si tratta di un evento unico. È la terza volta che Facebook è colto a mentire agli inserzionisti allo scopo di rubare loro i soldi.
La prima volta è stato il famoso momento ‘pivot to video’ in cui Facebook ha mentito agli inserzionisti e ai media sulle metriche dei video, facendo sì che i media riorganizzassero il loro modello di business e poi licenziassero i giornalisti. Facebook alla fine ha pagato qualche inserzionista perché ritirasse le accuse, ma lo scandalo è affiorato anche durante l’udienza della sottocommisione antitrust della Camera, quando il membro del Congresso Jerry Nadler ha interrogato Mark Zuckerberg su questo.
Poi, alla fine dell’anno scorso, a novembre, Facebook ha detto agli inserzionisti di aver sovrastimato i risultati delle loro campagne pubblicitarie. Due mesi prima di rivelarlo alle parti truffate aveva saputo dell’inganno e, limitando il problema a una questione tecnica, non aveva restituito i soldi agli inserzionisti, ma coupon per i servizi di Facebook.
Ci sono altri comportamenti scorretti. Nel 2018 c’è stato l’accordo della Cambridge Analytica Federal Trade Commission, che ha sanzionato Facebook per 5 miliardi di dollari per la cattiva gestione dei dati dei clienti, la cosa era di fatto una risposta a un decreto di consenso del 2011 sulla cattiva gestione di Facebook dei dati dei clienti. E indovina un po’? Probabilmente Facebook aveva già violato il decreto del 2018!
Il New York Department of Financial Services ha recentemente criticato l’azienda per «aver raccolto dati non autorizzati sulle condizioni mediche, le pratiche religiose e le finanze delle persone» e quindi aver utilizzato questi dati per fare pubblicità mirata. Questa è la violazione di un decreto sul consenso sul furto di dati che è stato raggiunto in seguito a un precedente decreto sul consenso sul furto dei dati.
Da tempo dico che i dirigenti delle big tech dovrebbero finire in manette, non solo ricevere sanzioni civili. Questo atteggiamento sta diventando diffuso. Dopo la risposta lassista alla crisi finanziaria sotto Obama, la rabbia per il ripetersi dei crimini aziendali si è diffusa sempre di più tra i democratici. Ad esempio, il commissario della Ftc Rohit Chopra nel 2018 ha osservato in una nota interna delle autorità che le società che ripetutamente violano la legge dovrebbero subire una riorganizzazione e i loro dirigenti dovrebbero essere ritenuti personalmente responsabili, secondo la famosa frase «gli ordini della Ftc non sono suggerimenti».
Quest’ultima truffa è un buon esempio. Facebook commette un crimine dopo l’altro, spesso sotto la supervisione di alti funzionari preoccupati delle ripercussioni sui ricavi. Dopo che succede un paio di volte è ragionevole criticare Facebook. Ora però la domanda è semplice: dove sono i poliziotti? Se nessuno impedirà alle aziende di commettere crimini, il risultato sarà l’ascesa di signori della guerra aziendali come Facebook che picchiano e rubano senza conseguenze. Queste aziende a loro volta finanzieranno specialisti nelle pubbliche relazioni che sosterranno che tutto questo ladrocinio è il risultato della tecnologia, che “internet ha ucciso i media”, come se mentire agli inserzionisti per poter rubare i loro soldi fosse stregoneria.
C’è un’altra dinamica nel dibattito pubblico. La ragione per cui gli argomenti di Facebook hanno seguito è perché le sue vittime, non vedendo alcuna azione da parte delle forze dell’ordine contro questa serie di crimini, hanno paura di reagire. Facebook e Google sono i fornitori dominanti dei servizi, delle entrate e dell’inventario pubblicitario per editori, inserzionisti e agenzie pubblicitarie. Il loro potere è immenso; Facebook si avvale di 400 studi legali per assicurarsi che ogni azienda non abbia alcun conflitto nel rappresentare un eventuale oppositore che potrebbe far loro causa. Google e Facebook possono trattenere i servizi o le entrate e in pratica distruggere chiunque sia nel settore dell’editoria o della pubblicità a questo punto, poi assumere economisti corrotti per spiegare alle forze dell’ordine credulone che il ricatto è efficiente.
Digiday ha segnalato la paura nel settore editoriale per il comportamento di Google e Facebook e ha riportato che pochi saranno critici dei monopolisti per paura di essere declassati nei risultati di ricerca o di perdere affari pubblicitari. «Google e Facebook hanno un tale potere che temo le ripercussioni, quindi ci comportiamo bene con loro», ha detto un anonimo dirigente editoriale. Di conseguenza, gli eserciti di pr di Facebook, spesso riciclati da scuole prestigiose e media autorevoli, hanno poca opposizione pubblica da parte delle industrie più immediatamente colpite dall’azienda.
Il crescente movimento anti-monopolio, nascente ma con un’influenza sempre maggiore, è una risposta culturale a questa illegalità. E questo movimento non è solo negli Stati Uniti, è globale. E sta ottenendo risultati. Finalmente questa settimana un oligarca di una big tech si è scontrato infine con la legge.
Il che mi porta in Australia.
Il caso australiano
Facebook ha bloccato la condivisione delle notizie in Australia dopo che il governo ha presentato una legge che impone all’azienda di negoziare con gli editori i termini di distribuzione dei contenuti. L’azienda ha anche bloccato gli editori australiani nella possibilità di essere condivisi in qualsiasi parte del mondo su Facebook. Facebook si è mosso al suo solito modo: “move fast and break things”, censurando accidentalmente gran parte del Pacifico meridionale, ma il risultato è che quando provi a pubblicare le notizie australiane, questo è il messaggio che ricevi.
Questa legge fa molto discutere, come ci si potrebbe aspettare. I libertari pro-Facebook dicono che si tratta di una “link tax” scritta dai luddisti, e alcune autorevoli persone di spicco dicono addirittura che distruggerà Internet, mentre gli editori dicono che è giunto il momento per una legge di questo tipo. Questa legge è importante, perché a differenza dei continui tentativi europei, chiassosi e fasulli, di affrontare le big tech, questa è la prima volta che vediamo davvero una nazione che tenta effettivamente di costringere le piattaforme a fare qualcosa che non vogliono. E fortunatamente, non dobbiamo fidarci di nessuna di queste persone nel dibattito e possiamo leggere la legge stessa o leggere il documento esplicativo che il legislatore australiano fornisce per spiegarlo.
Come i lettori di lunga data sanno, da anni seguo molto attentamente le politiche antitrust australiane perché il capo della commissione australiana per la concorrenza e i consumatori, Rod Sims, è stato in prima linea nell’indagare sulla privacy, sulle pratiche in materia di dati e sul potere di mercato delle piattaforme delle big tech. Questa legge nasce dall’inchiesta sui mercati digitali lanciata nel 2017; è una delle prime raccomandazioni dell’Accc su come affrontare le big tech, ma di certo non è l’ultima. (Ecco, ad esempio, il rapporto rivoluzionario dell’Accc sulla complessa filiera delle aziende della tecnologia per la pubblicità pubblicato alla fine del mese scorso, che si basa sul contenzioso antitrust di Texas Ag contro Google. È lecito immaginarci che l’Australia sarà all’avanguardia anche in questo).
La legge è pensata per affrontare un problema specifico, che è la morte dei giornali a causa della monopolizzazione del mercato pubblicitario australiano. L’Australia ha perso il 15 per cento dei suoi giornali dal 2008 e dozzine di piccole città ora non hanno una copertura giornalistica. Questo grafico che fa parte dell’indagine sulla piattaforma digitale Accc mostra parte del problema del monopolio che ha portato al collasso.
Cosa dice la legge australiana
La legge dice che una piattaforma digitale dominante ha l’obbligo di negoziare in buona fede i termini di distribuzione con le testate giornalistiche di cui distribuisce i contenuti. La legge si applica soltanto se c’è una disparità di negoziazione con i media. Dunque non si tratta di una tassa, è una legge anti-monopolio.
Gran parte del disegno di legge ha a che fare con la designazione di chi diventa un editore. Il disegno di legge dice che i contenuti di pura opinione non contano, e nemmeno lo sport e l’intrattenimento puro. I media devono registrarsi presso il governo per ottenere il diritto di contrattazione. Il disegno di legge impone alle piattaforme digitali di comunicare in anticipo ai media quali dati raccolgono e quando modificheranno importanti algoritmi su cui questi media si basano, ad esempio se hanno intenzione di modificare il traffico di riferimento in modo da eliminare più del 20 per cento dell’audience e delle entrate. Tutto perfettamente ragionevole: in pratica dice che Facebook deve darti un preavviso di due settimane prima di distruggere la tua attività.
La legge prevede anche disposizioni contro la discriminazione e contro le ritorsioni, per garantire che le piattaforme digitali dominanti non facciano leva sulla paura per intimidire gli editori. Le piattaforme devono considerare gli enti non giornalistici come enti giornalistici nel modo in cui distribuiscono i contenuti e non possono vendicarsi se un ente giornalistico sceglie di registrarsi e richiedere i diritti di contrattazione.
Una testata giornalistica ha determinati diritti. Le piattaforme devono comunicare alle testate i dati che raccolgono: non devono condividere i dati, ma devono spiegare cosa stanno raccogliendo. E durante la contrattazione le parti devono scambiarsi le informazioni che dicono il modo in cui guadagnano, cosicché nessuno usi i dati in modo opaco per fare profitti. Questa è una misura di trasparenza per costringere big tech a mostrare come valutano e assegnano la pubblicità (che è qualcosa che Facebook sembra utilizzare costantemente per truffare gli inserzionisti).
Le testate giornalistiche e le piattaforme di notizie possono negoziare come vogliono per un breve periodo di tempo. La piattaforma può pagare in base al traffico o semplicemente può coprire una percentuale dei costi di raccolta delle notizie. Ma questo può avvenire soltanto, e questo è il punto chiave, se c’è uno squilibrio nella contrattazione, ovvero se la piattaforma incassa tutte le entrate pubblicitarie. Se una piattaforma digitale non ha potere contrattuale contro i media, ovvero non è dominante, non è necessario alcun tipo di negoziato.
Cosa succede se le trattative falliscono? Se una piattaforma digitale dominante e un media non riescono a trovare un accordo, allora interviene un arbitro. L’arbitro deve considerare il valore che sia la piattaforma sia la testata forniscono, nonché lo squilibrio nella contrattazione tra di loro, il che significa che, se come afferma Facebook i media offrono un valore zero alle piattaforme, allora possono semplicemente dimostrarlo in sede di arbitrato e non pagare nulla. L’arbitro non gestisce il processo nel dettaglio, ma arbitra come nel “baseball” e ciò significa che entrambe le parti fanno un’offerta e l’arbitro ne sceglie una. Questa modalità è più veloce e allo stesso tempo meno invadente rispetto alla normativa governativa standard e offre un incentivo a entrambe le parti a fare proposte non estreme con cui possono convivere, per paura che l’arbitro scelga semplicemente l’altra parte se viene suggerita una cosa assurda.
L’idea alla base della legge è imitare un mercato sano, in cui ci sia la trasparenza dei dati e un solido insieme di acquirenti e venditori, invece di poche piattaforme dominanti. Come osserva il legislatore, «Ciò consente alla giuria, nel prendere la propria decisione, di considerare l’esito di uno scenario ipotetico in cui le trattative commerciali si svolgono in assenza di squilibrio del potere di contrattazione». Una soluzione migliore sarebbe creare un mercato reale, smantellare queste aziende, come Newscorp ha consigliato e Accc respinto (soprattutto per l’Uomo Nero Murdoch). Ma l’Australia ha rifiutato quest’approccio, probabilmente perché è un paese piccolo senza il potere di forzare un break-up.
Questa legge, per come è formulata, non funzionerebbe in America perché non vorremmo che gli editori dovessero registrarsi presso il governo, ma è una concettualizzazione abbastanza ragionevole su come organizzare un provvedimento anti-monopolio in un paese piccolo che non ha la possibilità di dividere i colossi tech stranieri utilizzati dai propri cittadini.
In altre parole, nonostante quello che dicono gli eserciti di pr di Facebook, non è una link tax, ma una legge anti-monopolio a cui Facebook si oppone perché compromette la capacità dell’azienda di monopolizzare il mercato pubblicitario e impone la trasparenza nel modo in cui l’azienda raccoglie e gestisce la sua vasta orda di dati. In un certo senso è una minaccia esistenziale per l’azienda (che penso potrebbe nascondere alcune cose sul suo modello di business, considerando che le sue entrate crescono del 20-30 per cento all’anno, anche se la sua base di utenti negli Stati Uniti e in Europa, dove fa la maggior parte dei suoi guadagni, rimane uguale).
La risposta di Facebook a questa legge è stata quella di mostrare i muscoli e dunque bloccare la condivisione delle notizie in Australia sulla sua piattaforma. È stato un disastro, almeno dal punto di vista delle pubbliche relazioni, perché ha rivelato quanto potere Facebook ha effettivamente. Il monopolista dei social media ha perso credibilità a livello globale, con i politici canadesi e britannici che hanno attaccato l’azienda per essersi mossa in malafede.
Facebook ha addirittura perso il sostegno americano; fino al mese scorso il rappresentante del commercio degli Stati Uniti aveva sostenuto la società contro la legge australiana, ma ora il governo americano sembra aver cambiato rotta ed è neutrale. È solo questione di tempo prima che Facebook venga smantellato e regolamentato.
I dettagli di questa legge sono interessanti, ma il vero punto in ciò che l’Australia sta facendo è imporre la legge contro il monopolista. In risposta Facebook sta dicendo di essere più potente dei funzionari democratici.
Libertà dalla paura
Finora ho parlato solo di Facebook e non dell’altro colosso, Google. Google è sfuggito all’attenzione perché l’azienda ha semplicemente deciso di prendere accordi con le testate australiane e di pagarli. Vale la pena notare che Google ha effettivamente minacciato di chiudere il suo motore di ricerca in Australia, ma il comportamento di Facebook è stato così disgustoso che Google ne esce, relativamente, come il buono tra i due.
Google però non l’ha scampata. È probabilmente un grandioso ladro di entrate editoriali e lo sappiamo perché alcuni anni fa, quando è stato temporaneamente bloccato dal monopolizzare il software alla base del modo in cui le persone acquistano e vendono annunci, il prezzo che gli editori hanno ricevuto per i loro annunci è cresciuto improvvisamente del 40 per cento.
La mia ipotesi è che Google costi agli editori negli Stati Uniti tra gli 8 e i 30 dollari di miliardi all’anno di “denaro contante freddo”, come l’ha definito il procuratore generale del Texas, e questo per come manipola la tecnologia alla base del mercato pubblicitario. Quest’analisi la teniamo per un altro momento, ed è complicata. Ciò che Facebook ha fatto non lo è. È un crimine ed è bullismo.
Oggi sappiamo due cose. L’azienda di Mark Zuckerberg per la terza volta ha rubato denaro agli inserzionisti, Sheryl Sandberg ne era a conoscenza ed è stata colta pubblicamente per averlo fatto. Secondo: l’azienda di Mark Zuckerberg ha deciso di censurare la nazione australiana invece di sottomettersi a una legge che controlla il potere di monopolio di una società.
Questi due fatti sono correlati. Nessuno ha ancora fermato Zuckerberg dalle ripetute e flagranti violazioni della legge, ma i mercati finanziari americani lo hanno premiato con guadagni netti superiori ai 100 miliardi di dollari. Di conseguenza egli ha giustamente concluso che potrebbe anche sfidare apertamente il potere dell’Australia di regolamentare i propri media.
Tuttavia Zuckerberg e Sandberg non sono dei, né mostri. Sono animali domestici maleducati, mordono e ringhiano perché in questo modo sanno che così otterranno un biscottino. Non è difficile risolvere questa situazione, basta reagire. In Australia Rod Sims ci fatto vedere come fare.
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