- La Conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici del 2021 (Cop26) era stata presentata da molti come «l’ultima chance per salvare la Terra».
- Non c’è quindi da stupirsi se, non appena si è concluso l’appuntamento di Glasgow, svariati opinionisti si sono affrettati a formulare un giudizio sull’accordo. Date le altissime aspettative, molti, se non la stragrande maggioranza, sono rimasti con l’amaro in bocca.
- Le aspettative verso i vertici multilaterali sul clima, e l’implicito cahier de doléances internazionalista, mostrano importanti paralleli con le questioni di lunga data della globalizzazione, e sono quindi esposte allo stesso tipo di ostacoli.
La Conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici del 2021 (Cop26) era stata presentata da molti come «l’ultima chance per salvare la Terra». Non c’è quindi da stupirsi se, non appena si è concluso l’appuntamento di Glasgow, svariati opinionisti si sono affrettati a formulare un giudizio sull’accordo. Date le altissime aspettative, molti, se non la stragrande maggioranza, sono rimasti con l’amaro in bocca.
L’accusa è articolata generalmente lungo due direttrici. In primo luogo i leader mondiali non starebbero ascoltando gli scienziati climatici, come evidenziato dal fatto che gli impegni presi a Glasgow ammonterebbero comunque a un riscaldamento superiore a 1,5 gradi Celsius entro il 2100, portando con un’alta probabilità a catastrofici sconvolgimenti climatici.
In secondo luogo i leader continuano a litigare in negoziati estenuanti che vedono tipicamente contrapposti paesi ricchi e poveri, incapaci di vedere l’umanità come un’entità unica, prigionieri di una visione del mondo novecentesca basata ancora sugli stati nazione. In questo ignorerebbero quindi il buon esempio dato dalle giovani generazioni attraverso movimenti di mobilitazione globale come Fridays for future. A peggiorare le cose gli impegni di decarbonizzazione, attualmente insufficienti, rischiano di non essere rispettati dato che non sono legalmente vincolanti. E tutto questo porta alcuni (come l’attivista Greta Thumberg) a considerare questi incontri multilaterali come un insieme di “bla, bla, bla”.
Questo insieme di critiche è comprensibile, ma richiede una riflessione più profonda. In effetti, le aspettative verso i vertici multilaterali sul clima, e l’implicito cahier de doléances internazionalista, mostrano importanti paralleli con le questioni di lunga data della globalizzazione, e sono quindi esposte allo stesso tipo di ostacoli.
La globalizzazione
All’inizio degli anni 2000, l’economista Dani Rodrik aveva suonato i primi campanelli d’allarme sul fatto che un’economia mondiale altamente integrata («iper-globalizzata», nel suo lessico) avrebbe richiesto regole internazionali comuni che avrebbero ridotto significativamente lo spazio politico di manovra per i leader nazionali, inclusi quelli democraticamente eletti.
In altre parole, regole multilaterali pervasive richiederebbero o di portare la democrazia a livello globale, creando un governo mondiale e abbandonando il concetto di stati nazione, o di rinunciare alla politica democratica. Salvaguardare entrambi i princìpî permetterebbe invece solo un insieme lasco di regole di coordinamento globali, lasciando così spazio di manovra per politiche nazionali di implementazione diversificate. Con gli opportuni accorgimenti, gli sforzi internazionali per mitigare il cambiamento climatico affrontano una sfida simile.
Rendere l’economia “carbon neutral” da qui al 2050 richiederà una trasformazione socio-economica strutturale senza precedenti, sia in termini di velocità sia di portata. Per raggiungere questo obiettivo sarà necessaria una vasta gamma di interventi pubblici, sia regolatori sia di politiche fiscali, volti a intervenire su tutti gli aspetti della vita dei cittadini.
Il dovere di decarbonizzare
Questo include le tecniche di produzione, il consumo, le abitudini alimentari, i trasporti, le caratteristiche di costruzione degli immobili, l’uso del territorio, solo per citarne alcuni. In altre parole, gran parte del bilancio annuale di un paese, e l’azione politica di ciascun governo più in generale, saranno ampiamente influenzati dagli obiettivi di decarbonizzazione prefissati per gli anni a venire.
Possiamo quindi immaginare che i suddetti obiettivi di decarbonizzazione possano essere decisi per ciascun paese a livello globale, essere vincolanti, e magari essere definiti solo da ciò che ci dice la scienza climatica? E se un paese si dovesse accorgere che in un determinato anno sta sforando gli obiettivi? In una dinamica che ricorda quella del gold standard, dovrebbe forse il governo introdurre politiche economiche contrattive o anche chiusure temporanee, simili a quelle osservate durante la pandemia, nel tentativo di forzare la riduzione delle emissioni di Co2 e soddisfare gli obblighi di fine anno?
Allo stesso modo, cosa succederebbe se un leader nazionale venisse eletto con un programma politico che prevede un percorso di decarbonizzazione più lento, magari nel mezzo di una recessione che richiama ad altre priorità di investimento (sociale), o durante una carenza di minerali green? Non possiamo aspettarci che in nessuna di queste situazioni prevalgano gli obiettivi climatici fissati a livello internazionale, pure se fossero definiti in qualche modo vincolanti. Alla resa dei conti, la forza della democrazia prevarrebbe sulle logiche, seppur sensate, dei tetti di emissioni fissate in consessi multilaterali.
Il lato dell’equazione
Possiamo quindi risolvere il dilemma immaginando di trasferire lo scrutinio democratico a livello globale? Proprio come nel caso della globalizzazione, è altamente improbabile che questo accada. Se è vero che, a una lettura superficiale, una sfida comune come il cambiamento climatico potrebbe unire l’umanità – cosi come suggerito dal recente film di Netflix Don’t Look Up –, la realtà rimarrà variegata e complessa. Le differenze radicate tra i paesi in termini di livello di ricchezza, cultura, valori, demografia o accesso alla tecnologia implicheranno che ogni nazione avrà le proprie priorità e opinioni su quale dovrebbe essere la strategia ottimale di decarbonizzazione. In altre parole, la convergenza verso un demos mondiale non è alle porte.
Tutto questo non dovrebbe implicare forme di fatalismo climatico. Piuttosto, dovrebbe portarci ad apprezzare che la scienza climatica è solo un lato dell’equazione, anche se estremamente importante. L’altro lato è irrimediabilmente la politica, cioè l’arte di trovare un compromesso praticabile a fronte di preferenze eterogenee, sia all’interno di un paese che tra paesi. Trascurare questo aspetto ci avvicinerà solo all’eco-autoritarismo e, alla fine, a proteste popolari contro la transizione ecologica stessa.
La migliore speranza per un’azione climatica sostenuta è invece la crescente priorità che i cittadini assegnano alla preservazione della natura. Un fenomeno questo che osserviamo in maniera crescente a varie latitudini e in maniera indipendente dai livelli di sviluppo economico. Il parametro chiave da valutare quando si generano aspettative sulla velocità della decarbonizzazione sarà la pressione esercitata da un’ampia fetta di cittadini verso i propri leader nazionali, rimodellando le priorità e le visioni del mondo preesistenti. Questo a sua volta definirà l’insieme di misure di governo praticabili per accelerare la transizione ecologica.
In sostanza, gli accordi multilaterali sul clima svolgeranno al meglio la propria funzione fissando dei princìpî generali e fornendo un quadro per una cooperazione non vincolante, lo scambio di buone pratiche e un po’ di utile moral suasion tra paesi. La rivoluzione verde non sarà fatta dall’alto in basso tramite trattati internazionali vincolanti, fissati unicamente in base a parametri stabiliti dalla scienza, ma piuttosto dal basso verso l’alto, dalla determinazione e dalla persistenza di cittadini che hanno a cuore il pianeta e il proprio futuro.
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