Capisco che la gente di città, i vegetariani e quelli come loro siano a favore dell’inclusione di tutte le razze e preferenze sessuali. Sono d’accordo. Ma allora perché non includere anche noi? I programmi satirici in TV non fanno altro che prenderci in giro. Ma non lo sanno che, oltre a essere senza cervello e a far sesso con gli animali, anche noi abbiamo la TV via cavo e li vediamo? È più o meno come quando, nel bagno della scuola, dei ragazzi prendono in giro uno sfigato, che non è con loro, e che si è reso ridicolo poco prima nell’ora di ginnastica. Però non sono cattivi, non direbbero mai quelle cose di fronte al compagno. E invece lo sfigato proprio in quel momento esce da uno dei cessi, e li guarda come per dir loro che ha sentito tutto. Ecco, direi così a tutti quelli che sparlano dei campagnoli (hillbillies): Hey, siamo nel cesso, e sentiamo tutto.

A raccontare (la traduzione e mia) è Damon Fields, il protagonista di Demon Copperhead, il romanzo di Barbara Kingsolver premio Pulitzer per la narrativa nel 2023. L’autrice esplicitamente si ispira alla storia di David Copperfield, e immagina come sarebbe potuta essere la vita del personaggio di Dickens nell’America rurale dei monti Appalachi.

Povertà e fragilità

Un tema comune ai due romanzi è la persistenza e “istituzionalizzazione” della povertà. Le persone indigenti hanno meno accesso a servizi e opportunità che potrebbero migliorare la loro condizione, e questo aumenta la loro fragilità economica e sociale. Servizi spesso sottofinanziati e incapaci di adempiere alle loro funzioni. Il sistema di erogazione di sussidi o dei servizi sociali, la sanità pubblica incapace di prevenzione che ricorre a scorciatoie come l’eccesso di prescrizione di oppiacei, l’apparato giudiziario carcerario che non adempie alle funzioni di recupero e reinserimento sociale, rendono sempre più difficile avere opportunità e vie d’uscita. Il sociologo Matthew Desmond descrive questi circoli viziosi nel suo ultimo libro, Povertà, in America.

I numeri

È per questo, peraltro, che politiche come la severa restrizione del reddito di cittadinanza in Italia, che ha contribuito ad aumentare il numero di persone in povertà assoluta (5,7 milioni, di cui quasi 800mila minori), rischia di lasciare questi nuovi poveri nella stessa condizione per lungo tempo. Lo stesso vale per i nuovi poveri argentini (dal 42 al 53% della popolazione nel 2024), vittime dei tagli del governo Milei a molti servizi: un modo atroce di frenare l’inflazione, con la vuota promessa che il “sacrificio” durerà poco, quando invece questa nuova povertà sarà persistente. E vale anche per l’indiscriminata desertificazione industriale, per esempio dell’Inghilterra settentrionale negli anni Ottanta (anche su questo è recentemente uscito un saggio importante, Poveri e abbandonati, dell’economista Paul Collier). O, appunto, di quella analoga nelle aree interne degli Stati Uniti. E in tutti gli altri casi in cui, specie a partire dagli anni Ottanta, l’ideologia dello stato minimo e l’entusiasmo incondizionato per la globalizzazione e la rivoluzione digitale è diventato bipartisan, a destra e (sedicente) sinistra.

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La marginalità culturale

Ma Kingsolver va oltre, nel suo romanzo, come la citazione poco sopra suggerisce e come l’autrice ha ribadito in molte interviste. La marginalità, delle popolazioni rurali o periferiche è anche culturale. Alcuni dei valori e delle abitudini di vita che in molte parti del nord come del sud del mondo caratterizzano intere comunità appaiono come non in linea con la cultura e le priorità delle parti più “avanzate” (più benestanti, istruite, cosmopolite) della popolazione. Al punto che l’attitudine verso queste differenze si trasforma, o almeno si percepisce, come un giudizio morale e condiscendente.

Prendiamo proprio ad esempio gli effetti della globalizzazione e della digitalizzazione incontrollate. Di fronte alla perdita di competitività di molti settori manifatturieri, e all’emergere di nuovi settori tecnologici in alcune aree degli Stati Uniti, l’implicazione economica e la ricetta politica sono state univoche: chi si trovasse in aree colpite negativamente da questi cambiamenti avrebbe dovuto trasferirsi in aree più avanzate, per esempio dal Kentucky alla California, e comunque cambiare lavoro, ad esempio dalla manifattura ai servizi. Se è più lucrativo fare il barbiere a San Francisco che il metalmeccanico a Youngstown in Ohio, la scelta ottimale per l’operaio è trasferirsi e “reinventarsi”. E se quella regione dell’Ohio è depressa, non è efficiente sussidiarla con denaro pubblico; meglio incoraggiare le aree più dinamiche, invece, o lasciare comunque che il mercato decida come e dove allocare le risorse.

Reinventarsi, come

Ma, per molti, trasferirsi e reinventarsi rappresentano la rinuncia a un universo di valori e di senso che li definisce come persone e come membri di una comunità. Rimanere vicini alle proprie famiglie e contare sul supporto reciproco. Godere degli spazi aperti e del contatto con la natura. Formare una famiglia numerosa. Identificarsi nel proprio lavoro, individualmente e come, se non proprio classe, almeno come collettività. Quella delle fabbriche del “Midwest” americano (e di tanti paesi europei) era una vera e propria “aristocrazia operaia”, con forte identità e una controparte chiara, quella dei padroni. Il termine “redneck”, collo rosso, usato per deridere gli abitanti dell’America rurale indicando la loro nuca bruciata dal sole per il lavoro all’aperto, in realtà ha un’altra origine: il colore della benda che i membri del sindacato portavano al collo durante le manifestazioni di protesta all’inizio del Novecento.

Fuori dalla storia

La percezione di essere considerati inferiori dalle élites, per via dell’attaccamento a questo universo di valori, è altrettanto devastante della precarizzazione economica. L’aumento del tasso di mortalità tra persone non anziane (soprattutto maschi) negli Stati Uniti è frutto, in egual misura, dell’impoverimento economico e della marginalizzazione sociale e culturale. Sono le “morti per disperazione”, a cui poi aggiungere l’epidemia di dipendenza da oppiacei.

La sensazione, nonostante tutti i progressi civili e sociali, di sentirsi lasciati fuori dalla storia non è solo un fenomeno americano. Nel suo magnifico lungometraggio animato Invelle, Simone Massi racconta un secolo di storia italiana dal punto di vista di una comunità rurale che, quella storia, se la vede passare sopra senza avere voce in capitolo. E sente che il proprio mondo, per gli altri, non esiste – Invelle, nel dialetto delle zone che Massi disegna e racconta, le Marche, significa appunto “da nessuna parte”.

Alla disperazione si aggiungono frustrazione e rabbia. Verso i “padroni”, certo, gli investitori speculativi che non si fanno problemi a rilevare imprese in difficoltà solo per smembrarle e rivenderle a pezzi.

Il pregiudizio per la periferia

Ma anche per il mondo progressista urbano, nuova base dei partiti di “sinistra”, che spesso ignora la periferia o la definisce in termini di ignoranza, irrazionalità e pregiudizio. Questa percezione di ostilità è diventata così forte che, pur di opporsi a quel mondo, molti hanno completamente perso fiducia del modello di capitalismo democratico che doveva garantire pari opportunità e anche pari dignità. E contribuiscono alla vita pubblica, ad esempio col voto, sempre meno. Oppure preferiscono seguire chi, quantomeno, non si dimostri ostile alle loro radici, per quanto lontano da loro possa essere. E per quanto possa speculare creando artificialmente una contrapposizione fra varie forme di emarginazione – economica e culturale da una parte, e basata sull’identità di genere, etnica, e di orientamento affettivo dall’altra, con quest’ultima percepita come più protetta della prima.

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Lo slogan di Clinton

Va ricordato che le amministrazioni progressiste hanno, “nei numeri”, fatto di più per migliorare le condizioni materiali delle classi più fragili, incluse quelle rurali, rispetto a quelle conservatrici. Gli esempi della presidenza di Joe Biden negli Stati Uniti e del premierato di Justin Trudeau in Canada sono i più recenti e più evidenti, ma non gli unici. Ma, forse, lo slogan della campagna elettorale di Bill Clinton, «It’s the economy, stupid», che spesso viene riesumato per sostenere che si vincono le elezioni se si ha successo in campo economico, è obsoleto e datato.

Nei propri rappresentanti e nelle classi dirigenti, le persone cercano anche il rispetto per loro stessi e le loro comunità, non un paternalismo mascherato da progressismo. Rappresentare, proteggere e guidare le classi più deboli, accogliendo e rispettando le loro storie, anche se a volte fuori dalla propria “zona di conforto”, cercando di unirle in una comune ricerca di senso che non discrimini nessuno e non metta gli uni contro gli altri, è forse la sfida più importante e impervia per la sinistra. Ma necessaria per tornare a essere popolare e non calcificata nelle città e nella borghesia intellettuale pensando, con presunzione, di sapere che cosa è giusto per tutti gli altri.

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