L’Italia è l’unico paese dell’area Ocse in cui il reddito pro capite è rimasto praticamente stagnante dal 2000. Meloni in Europa si oppone a tutte le riforme che sarebbero necessarie per aumentare la competitività
C’è un problema di competitività in Europa, e ancor di più in Italia. Il dato che conta è la produttività da cui dipende il reddito medio pro capite. Una maggiore produttività significa che aumenta il valore di quanto è prodotto da ogni occupato, e quindi anche la sua capacità reddituale. La produttività però non migliora solo il loro benessere economico degli individui, ma permette anche allo Stato di incassare più imposte per finanziare welfare, investimenti pubblici e ridurre le diseguaglianze.
La rivoluzione tecnologica, che ormai tocca quasi tutti gli aspetti dei processi produttivi, della fornitura dei servizi e della vita sociale, ha aperto un gap crescente tra la produttività negli Usa e l’Eurozona: dall’avvio della moneta unica il reddito pro capite a prezzi costanti negli Stati Uniti (aggiustato per il differenziale del potere di acquisto del cambio), è infatti cresciuto complessivamente del 40 per cento, quasi il doppio del 22 dell’Eurozona: una differenza di quasi mezzo punto l’anno (fonte Ocse).
Se nel 2000 il reddito pro capite dell’area euro era il 76 per cento di quello americano, oggi è al 69; un gap che è peggiorato dall’inizio del Covid. Il peggioramento potrebbe essere temporaneo, causato dalla maggior creazione di posti di lavoro nell’Eurozona, 7 milioni rispetto ai 2 degli Usa, in quanto gli americani erano già vicini alla piena occupazione; ma il trend è chiaro.
Concorrenza cinese
Oltre al divario di produttività, l’Eurozona si trova ad affrontare la crescente concorrenza della Cina che in 20 anni ha incrementato a dismisura l’avanzo commerciale con l’area euro, dai 53 miliardi del 2004 ai 221 dell’anno scorso.
L’invasione russa dell’Ucraina ha evidenziato la necessità di una difesa europea e ha cancellato una politica energetica basata sulla rete di gasdotti dalla Russia. Ma difesa e riorganizzazione delle fonti di approvvigionamento energetico richiedono enormi investimenti che le finanze dei singoli paesi non sono grado di sostenere, o lo sono in misura inadeguata. Così come la transizione ambientale che è ineludibile, a prescindere da critiche ed errori sulle sue modalità e tempistiche.
Manca un mercato unico dei capitali, frammentato in tante Borse e sistemi bancari segmentati secondo i confini nazionali, capace di finanziare e assumersi i rischi degli investimenti necessari per chiudere il gap tecnologico, per la difesa, l’ambiente, nonché per far crescere le imprese europee alle dimensioni necessarie a competere con le grandi multinazionali. E manca un’attività “priva di rischio” denominata in euro analoga per dimensione del mercato e liquidità ai Treasury americani: gli Eurobond, di cui però si sono perse le tracce dopo l’esperimento con la mutualizzazione del debito per il Covid.
Ipoteca sul futuro
Il Rapporto commissionato a Mario Draghi, commissionato dalla della presidente della Commissione Ursula Von der Leyen, nasce dalla consapevolezza che la perdita di competitività dell’Europa, e le sfide che l’attendono, costituiscono una grave ipoteca sul suo futuro. Una consapevolezza che però manca al governo italiano e in molta parte dell’opinione pubblica.
In Italia si fa spesso riferimento, Giorgia Meloni inclusa, alla crescita del Pil, più rapida che nel resto d’Europa, alla capacità di esportare e alla riduzione dello spread sui titoli di stato, per sostenere che l’Italia è esente dai problemi che maggiormente affliggono l’Eurozona. Ma la crescita del Pil è drogata dai fondi del Pnrr che presto è destinato ad esaurire i suoi effetti, specie tenuto conto che l’economia europea è a rischio di recessione come dimostrano il forte rallentamento di consumi e investimenti nel secondo trimestre. Quanto alla produttività l’Italia è l’unico dell’area Ocse in cui il reddito pro-capite è rimasto praticamente stagnante dal 2000, crescendo solo negli ultimi quattro grazie all’effetto straordinario del Pnrr.
Quanto allo spread, non è tanto un indicatore della sostenibilità dei conti pubblici, che riguarda uno scenario di lungo periodo, ma del posizionamento degli investitori in quel momento: quando si allarga, significa che la crisi è già iniziata; e quando si chiude, non vuol dire che non ce ne possa essere una dietro l’angolo.
Abbaglio da export
La capacità di esportare viene spesso presa come indicatore di competitività: ma lo è delle imprese italiane che esportano con successo, non del Paese nel suo complesso. Anzi, è vero il contrario.
La crescente competizione cinese tocca anche l’Italia, con il disavanzo commerciale che in 20 anni si è quadruplicato, fino ai 28 miliardi dell’anno scorso. Oltre la metà delle nostre esportazioni si concentra in macchinari, mezzi di trasporto e altri settori tradizionali (abbigliamento, mobilia, gioielli) che costituiscono nicchie di eccellenza, ma sempre più esposte all’interesse dei capitali stranieri e delle grandi multinazionali.
Inoltre, il valore delle esportazioni non è il dato corretto per valutare lo stato economico del paese, ma la bilancia delle partite correnti (il saldo con l’estero di beni, servizi, trasferimenti e redditi): un avanzo indica che la produzione eccede la domanda interna, e quindi c’è una carenza di consumi e investimenti privati.E’ quello che è successo in Italia dopo la crisi finanziaria del 2011-2012 quando, dai precedenti disavanzi, siamo passati negli ultimi 10 anni a un avanzo medio di 2,2 punti del Pil (escludendo l’anno del Covid): segno che le politiche economiche perseguite da allora non hanno impedito un crollo dei consumi e della domanda interna, che persiste ancora oggi. Non certo un segno di benessere economico; nonostante la capacità di esportare di alcune nostre imprese manifatturiere.
Le contraddizioni di Meloni
Le tendenze politiche in atto in Europa vanno nella direzione opposta a quella che servirebbe per recuperare competitività e spiegano le troppe contraddizioni del governo Meloni nei rapporti con l’Europa.
I partiti di destra sono al governo in sei paesi europei e in altri sei godono del sostegno di circa il 30 per cento degli elettori. Dal punto di vista economico sono accumunati dal nazionalismo e dal dirigismo, dove gli interessi dei governi nazionali prevalgono rispetto all’Europa e al mercato dei capitali. Le forze politiche di destra sono quindi contro la mutualizzazione del debito, perché non vogliono che i soldi dei contribuenti di un paese vadano a beneficio degli altri europei.
In Europa il governo è nazionalista (sta con Orban e ha votato contro Von der Leyen) eppure dovrebbe essere a favore degli Eurobond in quanto principale beneficiario del Pnrr, unico esperimento di mutualizzazione; anche perché l’elevato debito non permette all’Italia, da sola, di finanziare in modo adeguato gli investimenti nella tecnologia, ambiente e difesa. E i nostri ritardi nell’uso dei fondi del Pnrr offrono ai nazionalisti d’Europa la migliore argomentazione contro gli Eurobond. Ritardi dovuti all’inefficienza degli enti locali destinatari dei fondi, che l’Autonomia voluta dal governo aumenterebbe.
Nazionalismo nocivo
Nazionalismo e dirigismo sono ideologicamente contrari al mercato unico dei capitali, all’unione bancaria, alla politica della concorrenza indispensabili per chiudere il deficit di produttività, specie dell’Italia. Ma il governo Meloni non ratifica il Mes, anche se le banche italiane sarebbero le più esposte a una crisi del debito pubblico; va alla guerra con la Commissione per le concessioni balneari, non certo un settore strategico, e riduce concorrenza e trasparenza negli appalti. L’adesione al nazionalismo in Europa pone poi il governo in una posizione ambiguità rispetto alla Cina, al Patto Atlantico e al sostegno all’ Ucraina.
Il Patto di Stabilità, che pure questo governo ha sottoscritto, viene presentato come un’imposizione dell’Europa, non come percorso indispensabile a evitare una futura crisi del debito; e non ricordandosi che senza l’intervento in passato di Commissione e Bce l’Italia avrebbe probabilmente dichiarato default.
E’ una specie di pena del contrappasso dantesca: per avere il consenso, il governo pecca di nazionalismo; ma i nazionalisti d’Europa ostacolano tutti gli aiuti che dall’Europa gli potrebbe arrivare.
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