Il governo Costa nel 2015 ha impresso un marcato cambio di rotta alla politica economica portoghese, rompendo con l’austerità e stimolando investimenti e crescita. Il tentativo di attribuire alla disciplina di bilancio i successi portoghesi banalizza un’esperienza che invece andrebbe studiata da vicino
In Europa, il 2024 delle mille elezioni comincerà il 10 marzo in Portogallo. Il presidente Rebelo de Sousa ha indetto elezioni anticipate dopo le dimissioni del governo socialista, indebolito da scandali che sono arrivati a lambire lo stesso primo ministro António Costa, al potere dal 2015. Sarà interessante vedere se il partito socialista, che dal 2022 era al potere con una maggioranza assoluta, riuscirà a limitare i danni e a continuare un’esperienza di governo che per molti versi è stata atipica nel panorama europeo, e caratterizzata da molti successi.
Un governo figlio dell’austerità
Costa è arrivato al potere alla fine del 2015 in un paese che, come la Grecia, la Spagna e l’Irlanda, era stato devastato dalla crisi del debito sovrano. Questi paesi, la cosiddetta “periferia” dell’eurozona, avevano negli anni Duemila accumulato colossali debiti con l’estero, vivendo “al di sopra dei loro mezzi”.
Quando con la crisi del 2008 i capitali si sono fatti scarsi e, a partire dal 2009, gli investitori hanno abbandonato prima la Grecia e poi a cascata gli altri paesi della periferia, si è affermata una narrazione che legava le difficoltà di questi paesi a finanze pubbliche allegre e alla mancanza di riforme.
Trascurando il ruolo del debito privato e accumunando economie in realtà molto diverse tra loro, questa narrazione ha ispirato i pacchetti di aiuti che la Troika (Fondo monetario internazionale, Bce e Commissione europea) ha condizionato a programmi di austerità e riforme strutturali, principalmente interventi sulle pensioni, sui salari del settore pubblico, sulle tutele dei mercati del lavoro.
All’epoca si parlò, contro ogni evidenza empirica, di un’”austerità espansiva” che avrebbe dovuto liberare le ali del mercato e consentire di crescere e ridurre il debito allo stesso tempo. Ma la realtà non si piega facilmente ai desideri, soprattutto quelli che non hanno fondamento empirico: l’austerità tutto è stato tranne che espansiva, portando crisi, disoccupazione, precarietà, e alimentando il voto di protesta che ha tra l’altro portato al governo la sinistra di Syriza in Grecia e il partito socialista di Costa in Portogallo, entrambi nel 2015.
Liberi dall’austerità
Ma mentre in Grecia la parentesi si è chiusa in fretta, il nuovo governo portoghese è riuscito a imprimere al suo paese un cambiamento abbastanza radicale di rotta senza entrare (eccessivamente) in rotta di collisione con le istanze europee.
Costa ha aumentato gli stipendi del settore pubblico, il salario minimo e le pensioni. Anche le imprese hanno beneficiato del cambio di rotta, con sussidi e finanziamenti agevolati soprattutto alle piccole e medie imprese.
Osteggiata dai creditori, la strategia ha tuttavia funzionato: il morale di imprese e consumatori è andato alle stelle, consumi e investimenti sono ripartiti, i capitali stranieri sono tornati, il Portogallo è diventato una delle economie europee con la crescita più vibrante.
Insomma, rifiutando la dottrina dell’austerità, il Portogallo ha deciso di puntare alla sostenibilità delle finanze pubbliche sostenendo la crescita e quindi il denominatore del rapporto tra debito e Pil; una strategia tanto banale quanto all’epoca considerata eretica in molti circoli europei, ma il cui successo è stato infine riconosciuto anche dai grandi giornali d’opinione come il Financial Times e il New York Times.
Anche gli elettori portoghesi hanno approvato l’operato del governo, dando al partito socialista la maggioranza assoluta dei seggi alle elezioni anticipate del 2022 (causate da frizioni con i partner della sinistra della coalizione a proposito della legge di Bilancio).
La chiave è nella crescita
Con l’avvicinarsi delle nuove elezioni il Portogallo torna al centro dell’attenzione. In particolare, nel nostro paese, alcuni commentatori cercano di reinterpretare la storia dell’ultimo decennio, argomentando che non c’è stata nessuna rottura con le politiche dei primi anni Duemila Dieci e che, al contrario, la chiave del successo portoghese sarebbe proprio l’austerità.
L’onorevole Luigi Marattin, per esempio, qualche giorno fa su X ha confrontato la spesa pubblica, il disavanzo pubblico e le entrate pubbliche di Italia e Portogallo notando come, in rapporto al Pil, disavanzo e spesa siano diminuite mentre in Italia sono aumentate.
Marattin conclude che «Il Portogallo, quindi, ha messo in atto per davvero la tanto terribile austerità: ha ridotto massicciamente la spesa pubblica, ha usato relativamente poco la leva fiscale, e ha adottato un incisivo programma di riforme strutturali: dalla liberalizzazione del mercato del lavoro, alla semplificazione burocratica passando per un coraggioso efficientamento del settore pubblico».
In realtà l’onorevole compie l’errore, comune tra molti studenti alle prime armi, di vedere rapporti tra causa ed effetto dove non ci sono. Se il disavanzo e la spesa in rapporto al Pil calano più in Portogallo che in Italia, questo può essere dovuto a più austerità (che fa calare il numeratore del rapporto) o a più crescita (che fa aumentare il denominatore).
Se invece dei rapporti Marattin avesse mostrato le evoluzioni delle variabili, gli sarebbe stato difficile sostenere le proprie tesi. La spesa pubblica in volume (al netto degli interessi) in Portogallo è crollata tra il 2010 e il 2015, durante i programmi della Troika, per poi ripartire con forza (altro che «ridotto massicciamente») con il cambio di governo: tra il 2016 e il 2023 essa è cresciuta del 15,1 per cento, leggermente più che in Italia (14,7 per cento).
Come mai il rapporto è calato, allora? Grazie al denominatore, il Pil. Sempre tra il 2016 e il 2023, il Portogallo è cresciuto del 15,8 per cento e l’Italia solo del 6,2 per cento. Negli anni dell’austerità imposta dalla Troika (tra il 2010 e il 2015), invece, il Pil era calato del 4,1 per cento in Portogallo e del 3,2 per cento in Italia.
Non è quindi meno spesa che ha portato al riequilibrio delle finanze pubbliche ma, come era intenzione del governo Costa, maggiore crescita. L’austerità, come certificato da un’abbondante letteratura empirica che i suoi molti fan italiani si ostinano a ignorare, ha insomma fatto danni anche in Portogallo.
Il post dell’onorevole Marattin è solo uno dei tanti esempi di un uso un po’ disinvolto dei dati a sostegno di convinzioni personali. Ma nel caso del Portogallo è particolarmente dannoso, perché intorbidisce le acque su un’esperienza interessante che in condizioni difficili ha conciliato, meglio di molti altri in Europa, crescita, sostenibilità delle finanze pubbliche ed equità, rifuggendo da ricette semplicistiche e da preconcetti non dimostrati, come quello che ridurre spesa e disavanzo pubblico sia sempre cosa buona.
L’esperienza portoghese andrebbe studiata senza paraocchi, soprattutto da coloro che credono che la chiave della crescita sostenibile sia nell’interazione di istituzioni imperfette, ma entrambe necessarie, come stato e mercato.
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