- È bastato che ieri Gazprom annunciasse la chiusura del gasdotto NordStream per tre giorni, dal 31 agosto al 2 settembre, per far schizzare ancora il prezzo del gas.
- Il sistema italiano non riesce a reggere ai rincari. Eppure il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani non fatto altro che informarci sul riempimento degli stoccaggi del gas passo dopo passo: a fine giugno «abbiamo riempito gli stoccaggi al 58 per cento», a inizio luglio «siamo già al sessanta», alla fine del mese «attualmente si viaggia verso il 71 per cento», a inizio agosto «stoccaggi al 74 per cento, si allontanano le misure di razionamento».
- Secondo Tabarelli presidente di Nomisma Energia, invece i conti non tornano. Gli stoccaggi possono non bastare, le variabili da cui l’equazione dipende sono le decisioni del Cremlino e le temperature. E le aziende hanno chiesto al governo un piano di razionamento controllato di cui nessuno si sta occupando.
È bastato che ieri Gazprom annunciasse la chiusura del gasdotto NordStream per tre giorni, dal 31 agosto al 2 settembre, per far schizzare ancora il prezzo del gas. Ma mentre la Russia entra nella campagna elettorale italiana – «L’inverno in nostra compagnia è molto più caldo e confortevole rispetto a uno splendido isolamento con il fornello del gas spento e i termosifoni freddi», ha minacciato l’ex presidente russo Medvedev – il governo in carica getta acqua sul fuoco.
Da mesi il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ci ha infatti informato del riempimento degli stoccaggi del gas passo dopo passo: a fine giugno «abbiamo riempito gli stoccaggi al 58 per cento», a inizio luglio «siamo già al sessanta», alla fine del mese «attualmente si viaggia verso il 71 per cento», a inizio agosto «stoccaggi al 74 per cento, si allontanano le misure di razionamento».
Un martellamento costante e rassicurante rispetto alla comunicazione di altri esecutivi europei. Quello tedesco, secondo la Bild, sta studiando proprio in questi giorni una ordinanza che imporrebbe limiti e divieti chiari, vietando l’illuminazione dei cartelloni pubblicitari, il riscaldamento delle aree di passaggio degli edifici pubblici, limitando il riscaldamento nelle aree di lavoro tra i 19 e i soli 12 gradi a seconda dell’intensità fisica del lavoro degli impiegati e via dicendo.
Siamo messi meglio noi dei tedeschi? Il problema è che il riempimento degli stoccaggi «non cambia nulla di fronte al rischio del prossimo inverno», dice Davide Tabarelli, presidente e fondatore di Nomisma Energia, uno dei pochi che invece di razionamento parla esplicitamente.
Un calcolo semplice
Ovviamente riempire le riserve è necessario, ma non è affatto sufficiente nel quadro di guerra che stiamo vivendo. «Il calcolo è semplice», spiega Tabarelli al telefono, «nei giorni freddi dell’inverno la domanda di gas arriva a 400 milioni di metri cubi, e al finire dell’inverno le scorte possono coprire 200-230 milioni di metri cubi al giorno, dalla Russia ne importiamo 90, siamo stati bravi a diversificare grazie alla strategia del governo e dell’Eni, ma se la Russia taglia il gas non c’è nulla da fare: le aziende dovranno chiudere».
Le variabili da cui l’equazione dipende sono le decisioni del Cremlino e le temperature che possono far variare la domanda di una quota pari al 25 per cento: entrambe sono ardue da prevedere. Invece, quello che si potrebbe fare è prepararsi, capire quali impianti in caso di crisi potrebbero fermare la produzione, sostenuti da interventi pubblici, e quali invece devono restare aperti. Confindustria ha affrontato più volte l’argomento con Cingolani.
Nei primi incontri il comparto produttivo ha chiesto di bilanciare l’eventuale razionamento anche sul settore residenziale e domestico, visto che la gran parte della quota del gas viene usata per il riscaldamento, che però è un bisogno primario. Anche riducendo il consumo delle famiglie il risparmio, dice Tabarelli, sarebbe di circa 20 milioni di metri cubi al giorno. In un anno si tratta di poco meno di tre miliardi, quando Mosca ci fornisce gas per 29 miliardi. Troppo poco, dunque.
Il piano che non c’è
A giugno, infine, gli industriali hanno chiesto al governo di elaborare un piano per evitare di prendere decisioni avventate e imporre chiusure lineari. La lista delle aziende energivore, dalle ceramiche alle vetrerie, dalle cartiere alle acciaierie, è nota, nome per nome, impresa per impresa. Ma la pandemia ha insegnato che l’economia è interconnessa, che seguire la burocrazia dei codici Ateco è tutt’altro che intelligente. In più bisognerebbe capire la quota di risparmi a cui si può arrivare all’interno della pubblica amministrazione e se per esempio gli enti locali potrebbero essere costretti a ridurre i servizi oppure no. Sono decisioni difficili da prendere e in Italia al momento non le ha volute prendere nessuno.
Ci sono, però, modelli utili: nella pandemia abbiamo sostenuto le aziende costrette a chiudere in nome dell’interesse pubblico, si potrebbe replicare il sistema imparando dagli errori. Sono poi già attivi i cosiddetti servizi di interrompibilità, per cui le imprese ad alto consumo possono volontariamente rendersi disponibili a interrompere i consumi per alcuni periodi per assicurare il servizio agli altri, ottenendo un congruo rimborso. Tutto questo dovrebbe far parte di un piano, che al momento non appare in alcun atto ufficiale dell’esecutivo, fino a qualche settimana fa ancora intento a correggere una norma sugli extra profitti che non ha dato risultati.
Gli esperti del settore sostengono che quella legge, gestita direttamente dal sottosegretario Roberto Garofoli, non ha colpito dove avrebbe dovuto: le aziende che fanno shipping, che comprano gas all’estero e lo rivendono in Italia, come Enel – presa di mira dal leader della Lega in diretta televisiva solo l’altro ieri – Eni o Hera, stanno guadagnando soprattutto tramite le società che si occupano di fornire garanzie sugli acquisti, quindi attraverso le controllate specializzate nella parte finanziaria. Ma il governo ha dato mandato all’Arera semplicemente di esaminare i contratti, non le operazioni infragruppo e l’autorità regolatoria che avrebbe il margine di manovra per intervenire si è fermata lì.
Al momento, nonostante i record, siamo ancora nella stagione dei prezzi bassi. È a febbraio che ci potrebbe essere l’emergenza. «Chi lavora nel settore mi dice non preoccuparti, allora la domanda sarà minore e sarà minore perché secondo loro ci sarà la recessione: siamo al punto di scommettere sulla recessione per evitare la crisi energetica – dice Tabarelli – Ma anche questo rischia di non bastare».
© Riproduzione riservata