Le ragioni dello sciopero sono scritte nei numeri stessi di una serie di provvedimenti che mescolano misure provvisorie e favori ai soliti noti, senza affrontare i problemi di fondo
Finge sorpresa, Giorgia Meloni. E critica uno sciopero «lanciato in estate – dice – quando io la manovra non l’avevo neppure pensata». Dunque la protesta sarebbe solo il frutto del pregiudizio politico, di un’opposizione preconcetta a una legge di bilancio che «aiuta in primo luogo le famiglie a basso reddito», come ama ripetere la presidente del Consiglio.
Di che cosa si lamentano, dunque, i lavoratori e pensionati che ieri hanno risposto all’appello di Cgil e Uil? In realtà le ragioni dello sciopero sono scritte nei numeri stessi di una serie di provvedimenti che mescolano misure provvisorie e favori ai soliti noti, senza affrontare i problemi di fondo di un paese penalizzato da una crescita asfittica, che alimenta il debito, e da disuguaglianze crescenti, con il 10 per cento della popolazione, che vive in condizioni di povertà, come denuncia il rapporto della Caritas presentato ieri.
È questo il contesto in cui il governo ha presentato il taglio del cuneo fiscale e l’accorpamento di due aliquote Irpef come una sorta di scudo stellare a difesa dei lavoratori in difficoltà. Meglio di niente, certo. Anche perché, come ha calcolato l’Istat, questi due interventi valgono circa 1.100 euro annui a famiglia (ma solo 600 euro secondo Bankitalia).
Il fatto è, però, che nel caso del cuneo i vantaggi c’erano già dal secondo semestre di quest’anno e dureranno solo fino alla fine del 2024, quando il provvedimento dovrà essere rifinanziato al costo, come minimo di 11 miliardi, quasi la metà del valore dell’intera manovra di quest’anno.
Quanto all’Irpef, anche qui l’aiuto ai lavoratori va a scadere nell’arco di 12 mesi. E non è tutto: come è stato calcolato dall’Ufficio parlamentare di bilancio, il beneficio maggiore finirà nelle tasche dei contribuenti più ricchi, nonostante il taglio delle detrazioni non sanitarie varato in fretta e furia dal governo quando al Mef si sono accorti degli effetti distorsivi della misura.
Ecco perché questa manovra “seria, prudente e responsabile” come va predicando da settimane il ministro Giancarlo Giorgetti, finisce per avere l’aspetto di un abito pieno di toppe, che, per di più, dovranno essere presto sostituite. Con l’inflazione che dal 2022 divora il salario dei lavoratori a reddito fisso, diventano poca cosa anche gli aumenti di stipendio a favore dei dipendenti pubblici, concessi con anni di ritardo rispetto alla scadenza dei contratti.
Mentre sulle pensioni, dopo una campagna elettorale di promesse impossibili da mantenere, i partiti della maggioranza hanno partorito una serie di ritocchi e aggiustamenti che introducono un regime ancora più severo della tanto bistrattata legge Fornero.
L’impressione è che il governo si muova senza un disegno complessivo, senza una rotta definita. Anzi no, a ben guardare, su un punto almeno la strategia è chiara. La riforma del fisco, destinata a diventare legge nel corso dei prossimi mesi, elargisce mance e nuovi favori ai lavoratori autonomi, tradizionale base elettorale del centrodestra, con provvedimenti come il concordato biennale di assai dubbia efficacia e altre novità che sembrano studiati apposta per compiacere commercialisti e consulenti tributari.
A dispetto delle dichiarazioni di principio sulla lotta all’evasione, l’insieme delle norme non sembra in grado di riequilibrare il peso delle tasse tra le diverse categorie di contribuenti. Anzi, conferma e rafforza antichi privilegi in un paese in cui l’82 per cento dell’Irpef viene pagata da lavoratori dipendenti e pensionati. Quelli che secondo Meloni non avrebbero ragione di protestare.
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