Il gruppo Ferrovie dello Stato (Fs), che ingloba anche Anas, è stato recentemente all’onore della cronaca per questioni di nomine, per i fondi del Pnrr, per le indagini sul traffico di influenze dei Verdini, e per la ventilata ipotesi di vendita nell’ambito del piano di privatizzazioni del governo.
Il gruppo è costituito da tante società per azioni e, anche se interamente di proprietà dello stato, la loro gestione dovrebbe essere dunque giudicata solo in base ai loro bilanci.
Non stupisce però che non sia così: in quanto vasto conglomeratodi società pubbliche costituisce un poltronificio perfetto; è destinatario di quasi 26 miliardi del Pnrr, che a sua volta allocherà all’esterno per realizzare gli investimenti, acquisendo così un potere finanziario senza eguali; ed è utile per il consenso visto che impiega direttamente quasi 90.000 persone, senza contare l’indotto.
Ma che cosa è il gruppo se lo si analizza esclusivamente come un’impresa? La prima cosa che colpisce è la presenza di Anas dentro le FS, frutto di una fusione priva di senso economico visto la totale mancanza di sinergie ed economie di scopo tra chi si occupa di strade e chi di ferrovie, un unicum nel panorama internazionale. Un’eredità del governo Gentiloni, molto gradita però da questo governo.
La seconda è che il gruppo, a differenza di un tipico conglomerato che si presenta suddiviso per gruppi di società, a sua volta divise per attività o tipologia del mercato in cui operano, si presenta organizzato in quattro poli: infrastrutture, passeggeri, logistica e urbano.
Manca però una corrispondenza tra poli e società, o tra poli e regime economico in cui operano le società delle Fs: ci sono attività di mercato e aperte alla concorrenza, come l’Alta Velocità, la logistica o la progettazione di infrastrutture; attività di mercato ma in concessione esclusiva come i treni regionali, o potenzialmente in concorrenza come le concessioni autostradali; attività di rete pubblica parzialmente di mercato, come la gestione della rete ferroviaria, che a sua volta è in parte finanziata dai diritti al suo utilizzo, e in parte da fondi pubblici; attività di holding di partecipazioni, anche straniere (dalla M5 della metropolitana di Milano, al traforo del Bianco e del Frejus, alla tedesca Netinera, all’Autostrada Asti-Cuneo, a Trenord); e attività di servizio pubblico interamente a carico dello Stato, come la rete stradale.
Non c’è neanche una relazione tra società del gruppo e regime economico in cui operano, per cui Anas espleta un servizio pubblico, ma gestisce anche attività di mercato in concessione con le autostrade a pedaggio; o Trenitalia che opera sia in concorrenza nell’Alta Velocità, sia con le concessioni per i treni regionali.
Trasparenza
I conglomerati sono tipicamente una struttura inefficiente perché c’è sempre il rischio che le società del gruppo meglio gestite, o con potere di monopolio, finiscano di fatto per sussidiare quelle poco competitive.
Per questa ragione i conglomerati sono ormai quasi spariti nel mondo, e si preferisce scinderli in tante società, ciascuna focalizzata in una attività specifica. Nel caso di Fs il problema è ingigantito dalla grande varietà di fonti da cui provengono le risorse: tariffe regolamentate, prezzi di mercato, contributi statali, concessioni, finanziamenti pubblici, ma anche emissioni obbligazionarie. Dei 13 miliardi di ricavi del 2022, 4 erano ricavi di mercato per il trasporto di passeggeri e merci, 2,8 concessioni per servizi alle Regioni e allo Stato, 2 contributi pubblici a fondo perduto, e 3,6 era generato dalle infrastrutture, di cui un terzo da tariffe per il suo utilizzo, mentre gran parte del rimanenete erano trasferimenti pubblici.
Non c’è quindi solo un problema di efficienza ovvero di capire se, per esempio, le concessioni per il trasporto regionale sussidiano l’Alta Velocità o viceversa, o se i trasferimenti pubblici alle infrastrutture permettono di sussidiare i costi di accesso alla rete, o viceversa.
Ma c’è anche un gigantesco problema di trasparenza sui criteri utilizzati per stabilire tariffe, concessioni, contributi, trasferimenti, e appalti a terzi; in ultima analisi, di trasparenza sulll’utilizzo delle risorse pubbliche.
C’è poi il problema annesso della responsabilità dei manager delle varie società, in quanto non si capisce quanto il risultato finale sia frutto delle loro scelte e capacità gestionali e quando dalle “politiche” del governo azionista, finanziatore, regolatore e appaltatore dei propri programmi di investimento, come nel caso per esempio dei fondi del Pnrr
Nella semestrale del 2023 (ultimo documento contabile disponibile) il “polo” Infrastrutture aveva un risultato operativo di 70 milioni, quello passeggeri di 128, la logistica ne perdeva 24 (pur avendo quasi 40 per cento dei ricavi da partecipate estere), e 3 l’urbano.
Siamo sicuri che la redditività dei vari poli rifletta effettivamente la loro efficienza gestionale e non sia invece il risultato della miriade delle fonti dei ricavi e criteri per determinarli?
Un dubbio più che legittimo se per esempio si pensa che ben 52 era la perdita operativa degli Altri Servizi (leasing e factoring per il gruppo, gestione sistemi informatici, sicurezza, certificazioni e persino credito ai dipendenti) che, come attività di gruppo, avrebbero dovuto essere più propriamente attribuite ai vari poli, con un impatto rilevante sulla loro redditività.
I dubbi sull’efficienza gestionale di un tale conglomerato sono corroborati dal rendiconto finanziario che mostra come nel primo semestre 2023 il Gruppo abbia bruciato cassa per 640 milioni a livello operativo, a cui aggiungere 1,3 miliardi necessari a finanziare sul mercato investimenti non coperti dai contributi pubblici.
La struttura di FS porta all’inefficienza non solo economica, ma anche finanziaria. Il gruppo è finanziato direttamente e indirettamente dallo stato e regioni, tramite i vari contratti di programma e di servizio, i contributi e le concessioni regionali; ma in parte dal mercato tramite obbligazioni e prestiti bancari.
Poiché lo Stato Italiano ha un indebitamento strutturalmente elevato, nei momenti in cui sorge la necessità di politiche restrittive per rendere sostenibili i conti, sorge l’incentivo a ridurre l’apporto diretto e indiretto a Fs, spingendolo così a fare un maggior ricorso al mercato.
Di fatto è debito pubblico, anche se esce dal perimetro della pubblica amministrazione, che viene trasferito dallo stato centrale a un’altra entità pubblica. Ma il rischio per il paese rimane.
Indebitamento elevato
Dai dati della semestrale si può calcolare come la posizione finanziaria netta di Fs sul mercato, ovvero al netto degli acconti che il Mef versa sul conto di Tesoreria per le opere da realizzare (all’attivo), e dei servizi in concessione (al passivo), abbia raggiunto quasi 19 miliardi, pari a 8 volte il margine operativo lordo: è un livello di indebitamento molto elevato, soprattutto tenuto conto del forte aumento dei tassi e della necessità di rifinanziarne il debito di FS che per due terzi scade entro il 2028.
La scissione del gruppo in tante società indipendenti secondo la loro attività e regime in cui operano, ovvero Alta Velocità, Rete Ferroviaria, concessioni autostradali, logistica, ferrovie regionali (anche per creare un po’ di concorrenza in accesso in questo settore), progettazione infrastrutture e via di seguito, sarebbe quindi il modo più efficace per garantire l’efficienza nella gestione delle società di Fs, per responsabilizzare maggiormente i manager e dare trasparenza all’utilizzo delle risorse pubbliche.
L’eventuale ingresso dei privati in queste società, anche con una quotazione, non dovrebbe poi essere vista solo come un modo per far cassa, ma la maniera migliore per aumentare la trasparenza, l’efficienza della gestione, e il controllo contro abusi e clientelismi. Così si fece, a suo tempo, per le reti del gas ed elettricità: non saranno la perfezione ma nessuno oggi rimpiange i vecchi monopoli pubblici.
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