Spararla ogni volta un po’ più grossa e poi vedere l’effetto che fa. A giudicare dalle ultime proposte, sembra questa la strategia della maggioranza in tema di tasse. L’ultima della serie è un emendamento alla manovra presentato dalla Lega che vorrebbe aumentare da 30 a 50 mila euro la soglia massima di reddito da lavoro dipendente o da pensione che consente alle partite Iva di usufruire della flat tax. Finora, infatti, l’aliquota unica del 15 per cento è riservata agli autonomi che guadagnano non oltre 85 mila euro, a patto che non abbiano ulteriori introiti, come lavoratori dipendenti, superiori a 30 mila euro. L’idea della Lega, adesso, è alzare l’asticella fino a 50 mila euro.

La proposta, ovviamente, andrebbe a tutto vantaggio del popolo delle partite Iva, tradizionale bacino di voti del partito di Matteo Salvini. Le probabilità che vada in porto anche questo ennesimo favore ai lavoratori autonomi, dove si annida gran parte dell’evasione fiscale, sembrano al momento piuttosto scarse. L’emendamento, però, va più probabilmente interpretato come un tentativo leghista di battere un colpo, a uso e consumo dei propri elettori, dopo l’umiliante sconfitta incassata proprio sul fronte della flat tax.

Risorse scarse

In questi mesi, infatti, Salvini aveva schierato le proprie truppe parlamentari con l’obiettivo di portare da 85 mila a 100 mila euro il limite della flat tax per gli autonomi. Obiettivo mancato, anche perché in tema di riforme fiscali la maggioranza ha puntato le sue carte sul concordato preventivo biennale, cavallo di battaglia del meloniano Maurizio Leo, viceministro dell’Economia e artefice della cosiddetta riforma fiscale messa a punto dal governo.

Lo stesso Leo, peraltro, si è fin qui limitato a prendere atto della nuova sortita leghista. Ospite di un dibattito organizzato da Assolombarda, l’esperto di tasse dell’esecutivo ha definito «una soluzione percorribile» l’idea di alzare a 50 mila euro il tetto per il reddito di lavoro dipendente per l’accesso alla flat tax, ma ha anche aggiunto che serve «la massima attenzione alle risorse». Una precisazione, quest’ultima, che di fatto rischia di azzerare ogni prospettiva di salire sul carro della manovra per l’emendamento sponsorizzato da Salvini.

Del resto, proprio in fatto di risorse Leo è costretto in questi giorni a gestire una partita a dir poco delicata. Anche il concordato preventivo biennale, infatti, si avvia a diventare un clamoroso flop e verranno quindi a mancare i fondi che il governo aveva annunciato di voler impiegare per tagliare dal 35 al 33 per cento la seconda aliquota Irpef, quella applicata ai redditi da 28 mila a 50 mila euro. Secondo le stime dell’esecutivo questa misura, presentata come un aiuto al ceto medio che si impoverisce, avrebbe un costo per le casse pubbliche di almeno 2,5 miliardi.

Il problema, però, è che alla scadenza del 31 ottobre scorso, le adesioni al concordato si sono rivelate molto inferiori a quanto sperato dalla maggioranza. In base ai numeri forniti da Leo, il gettito ha raggiunto a malapena quota 1,3 miliardi. Quindi mancano all’appello almeno 1,2 miliardi.

Favori agli evasori

Un flop annunciato, perché un esercito di addetti ai lavori aveva già previsto che neppure i generosissimi incentivi escogitati dai tecnici governativi sarebbero stati sufficienti a moltiplicare le adesioni da parte dei lavoratori autonomi. In sostanza, in mancanza di controlli incisivi da parte della Agenzia delle entrate, agli evasori conviene continuare ad aggirare le norme piuttosto che uscire allo scoperto approfittando della proposta, per quanto conveniente, da parte dello Stato.

Messo alle strette, il governo ha varato in fretta e furia un decreto che ha allungato al 12 dicembre la scadenza per aderire al concordato. La previsione generale, però, è che neppure i tempi supplementari basteranno per arrivare alla fatidica soglia dei 2,5 miliardi.

Tra l’altro, secondo quanto reso noto da Leo nei giorni scorsi, la somma di 1,3 miliardi incassata finora non sarebbe riferita al solo 2024. Il gettito per quest’anno sarebbe infatti di 425 milioni, mentre altri 865 milioni finirebbero nei conti del 2025. Inoltre, non è affatto detto che il gettito del concordato, cioè 1,3 miliardi, possa davvero essere utilizzato per dare un taglio di due punti percentuali alla seconda aliquota Irpef. Servirà tempo, infatti, come ammesso di recente anche dal ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, per capire se quei fondi rappresentano un reale recupero dell’evasione oppure un semplice gettito supplementare rispetto al 2023.

Solo nel primo caso le somme provenienti dal concordato potrebbero andare a finanziare la riduzione dell’aliquota in modo permanente, strutturale e non solo per un anno, il prossimo. Il dubbio avanzato dall’opposizione è invece che parte del gettito dichiarato in più sul 2023, sarebbe stata incassata anche in assenza di concordato, e non può quindi essere considerata recupero dell’evasione.

Insomma non è escluso che la misura simbolo del fisco nuovo propagandato dal governo, quello che punta instaurare un rapporto di fiducia con il contribuente, alla fine si riveli un doppio buco nell’acqua. Poche risorse per l’erario e per di più con il divieto di usarle per tagliare le tasse in modo strutturale e non per finanziare misure tappabuchi valide per un solo anno.

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