La lezione di Keynes ottant’anni dopo la conferenza di Bretton Woods. Banca mondiale e Fondo monetario internazionale devono cambiare, ripartendo dai fondamentali. E partendo da tre considerazioni, tra cui quella che il multilateralismo è ancora la soluzione, anche cooperando con regimi non democratici
Nell’estate del 1944, un mese dopo lo sbarco in Normandia, circa 800 delegati di 44 governi alleati sbarcarono sulle coste degli Stati Uniti per raggiungere Bretton Woods, una località interna nel New Hampshire, nel Nord-Est degli Stati Uniti.
Lì si sarebbe svolta la conferenza da cui sarebbero scaturiti – oltre all’accordo monetario che avrebbe fissato per il dopoguerra cambi fissi ma aggiustabili, con perno il dollaro – gli statuti della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, le cosiddette istituzioni di Bretton Woods.
Abbiamo ancora bisogno di queste istituzioni, che il prossimo luglio compiranno 80 anni? Sì, giacché rappresentano, almeno nell’ideale, uno dei punti più alti raggiunti dall’economia e politica mondiale nel tentativo di servire la prosperità e la stabilità.
Devono cambiare? Sì, ma ogni proposta specifica dovrebbe partire da tre considerazioni, che costituiscono le premesse per ogni futura riforma: che si tratti della distribuzione delle quote, che è immutata dal 2010 (mentre dopo l’ultima review del 2023 è aumentata la loro complessiva entità), del rafforzamento dei Diritti Speciali di Prelievo o di altro.
Svolta conservatrice
Primo. Le istituzioni di Bretton Woods hanno attraversato e attraversano una crisi di legittimazione intellettuale e morale che è il frutto della “svolta conservatrice” impressa negli anni successivi alla loro nascita, ma specialmente a partire dagli anni Settanta e Ottanta del Novecento.
Quelle istituzioni, infatti, non erano state create per perseguire politiche di rigore in quanto tali: ma per favorire (il Fondo) l’aggiustamento macroeconomico senza però rinunciare a quelle politiche di piena occupazione che, nel dopoguerra, erano divenute obiettivo centrale dell’azione dei governi; e per favorire (la Banca) lo sviluppo dei paesi allora economicamente meno avanzati o aree meno avanzate di paesi già economicamente sviluppati (vedi il Mezzogiorno) nell’ottica di una prosperità globale: duratura e stabile perché condivisa e indivisibile.
Erano le idee che il grande economista britannico John Maynard Keynes, protagonista della conferenza di Bretton Woods, aveva a lungo propugnato. E non va dimenticato che l’articolo 1 dello statuto del Fondo – ancora oggi in vigore – recita tra le altre cose che lo sviluppo dell’occupazione e del reddito reale sono obiettivi fondamentali della politica economica.
Nuovi equilibri
Secondo. Vi sono oggi molteplici e nuovi centri di decisione e influenza nell’economia globale, a cominciare dalla Cina, ma non soltanto essa, come portato di processi storici di lungo periodo come la decolonizzazione e la globalizzazione.
Da una decina d’anni, per esempio, esistono istituzioni che, almeno nelle intenzioni, aspirano a mettere in discussione l’ordine liberale internazionale emerso dalla seconda guerra mondiale e di cui le istituzioni di Bretton Woods sono espressione. Si pensi alla Asian Infrastructure and Investment Bank (AIIB) di cui la Cina ha la maggioranza relativa o la New Development Bank (NDB), la cosiddetta Banca dei Brics. Oppure, circostanza per certi aspetti ancora più importante, al ruolo assunto dalla Cina come grande creditore internazionale. Fino a pochi anni fa, come ha ricordato recentemente Paolo Guerrieri su Aspenia, il Club di Parigi (per larghissima parte costituito da paesi ricchi del Nord del mondo) deteneva il 40 per cento del debito dei paesi a più basso reddito; oggi ne detiene solo il 10.
Nel 1944 l’economia americana e quella europea corrispondevano a circa i due terzi dell’economia mondiale. Ma oggi queste due grandi aree rappresentano meno della metà dell’economia mondiale in termini di prodotto (ciò che, è bene ricordarlo, continua a fornire loro una leva geopolitica non trascurabile, specie quando lavorano insieme).
In breve, l’Europa e gli Stati Uniti non dominano più l’economia mondiale come nel 1944 (anche se, è bene ricordare anche questo, le loro monete restano le principali valute di riserva internazionali). Il fatto è che già alla Conferenza di Bretton Woods ben 32 dei 44 paesi partecipanti non erano espressione dell’Occidente politico: 4 erano paesi africani, 4 dell’Europa dell’Est, 5 asiatici e 19 erano gli Stati che facevano parte dell’America centrale e meridionale.
Se anche quel mondo, coloniale e diviso, sentì l’esigenza di allargare e aprire ad altri paesi, quella lezione, largamente ispirata dalla volontà politica di Roosevelt, non deve essere dimenticata.
La lezione della Storia
Terzo. Il multilateralismo è ancora la soluzione, ed è nell’interesse di tutti, Cina inclusa. Ma la Storia economica suggerisce che grandi accordi o grandi riforme del sistema sono difficili da realizzare senza una “grande paura”, un “grande pericolo” o, peggio, una “grande guerra” il cui esito sospinge la riforma.
È da una, anzi due, grandi guerre che è nata la Comunità poi Unione Europea; ed è da due guerre che sono nate la Società delle Nazioni prima e le Nazioni Unite e le sue agenzie poi. Esistono oggi quelle condizioni di “paura” e di “pericolo”? Sì. Sono esse adeguatamente percepite e incarnate da classi dirigenti storicamente consapevoli? Se ne può largamente dubitare. E dunque nel frattempo non resta che preparare e riparare, finché si può e dove si può, anche cooperando con regimi non democratici, se possibile nella misura in cui essi sono “decent regimes” per dirla con John Rawls, se rispettano cioè il diritto internazionale e i diritti umani in particolare.
Nel frattempo – che è il tempo della Storia mentre essa scorre silenziosa – non resta che il pluri-lateralismo, cioè le alleanze e i consessi plurimi e variabili, avendo come perno ciò che esiste. In questo contesto, sarebbe un errore abbandonare a una lunga agonia la Banca e il Fondo (e il WTO).
La politica e i suoi rischi
Vale infine ricordare ciò che disse Keynes, all’incirca due anni dopo Bretton Woods, alla conferenza inaugurale della Banca e del Fondo a Savannah, Georgia, nel marzo del 1946. In un discorso che rifletteva la sua amarezza per il destino delle proposte più innovative che egli aveva presentato (e che a Bretton Woods erano state respinte) e per l’eccessiva a suo giudizio influenza che gli Stati Uniti si apprestavano a giocare nel funzionamento delle due istituzioni, Keynes propose un’analogia con “La bella addormentata” del compositore russo Pëtr Tchaikovsky (sua moglie, la ballerina russa Lydia Lopokova, era una delle grandi étoile del tempo).
Immaginò dunque l’arrivo di tre fate con altrettanti doni per le neonate istituzioni.
La prima avrebbe donato un mantello di molti colori, il mantello biblico di Giuseppe (che dava la forza di condonare i debiti), «a perpetua memoria», disse, «del fatto che esse [la Banca e il Fondo] appartengono al mondo intero»; la seconda una scatola di vitamine per dare «energia e uno spirito impavido»; la terza la «saggezza».
Keynes andò oltre e chiuse con pennellate più scure.
Avvertì i presenti sul rischio rappresentato dall’arrivo di una fata cattiva che alle due neonate istituzioni avrebbe potuto dire: «Voi due, diventerete due politici; ogni vostro pensiero avrà un retropensiero; e ogni vostra decisione non sarà presa in base al merito, ma in base a qualcos’altro».
Non dimentichiamo, mentre avanziamo in un tempo denso di pericoli, l’importanza e l’ispirazione originaria delle istituzioni di Bretton Woods (e del multilateralismo), ma nemmeno il duro monito di Savannah.
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